In nome del servilismo di maniera, quello necessario a salire verso il vertice, abbagliato dalle false lusinghe dei superiori e dall’omertà di colleghi che sanno ma non dicono, vede l’aggiunta, nel suo ufficio, di una scrivania, con annesso stagista ventenne, come un segnale ulteriore della sua insostituibilità e delle sue capacità: chi del resto potrebbe formare le nuove leve se non lui, il migliore? Giorno dopo giorno, lo stagista, indefesso nel carpire i segreti del più “anziano”, cresce a dismisura, come un pitone appunto, fino al fatidico istante in cui il capo del personale chiama il nostro cinquantenne e, dopo il “mi dispiace” di prammatica, lo licenzia provocandone una sorta di morte civile. Questo ci narra dunque uno strepitoso Battiston in un monologo greve e ossessivo, attenuato solo in parte dai dialoghi con il suo angelo custode, il bravissimo Gianmaria Testa, forse più apprezzato oltralpe che da noi, che con la sua chitarra e le sue melanconiche e struggenti ballate sottolinea i passaggi più drammatici. Uno specchio fedele dei nostri tempi e del nostro attuale mondo del lavoro, sempre più inquinato dall’ossessione di produrre utili, dove ingegneri e gestori di risorse umane si esercitano nel tagliare teste, in ispecie, per inciso, quelle dei cinquantenni, ormai logori e spremuti, ma “cari”, in quanto considerati alla stregua di meri costi, e non come portatori di esperienza e grande professionalità, da sostituire senza tema con giovani entusiasti, più facilmente plasmabili e spremibili, e per di più pagati la metà!
Visto dalla parte del cinquantenne licenziato però questa scelta, managerialmente ineccepibile, naturalmente per la sola azienda, si concretizza in una vera e propria morte morale e sociale; con il lavoro, infatti, l’uomo perde la “sua” vita, perde il senso delle cose, finisce per sopravvivere in una sorta di abbandono atarassico, tra oggetti sparsi e vestiti buttati alla rinfusa, in un appartamento rimasto vuoto dopo che anche la moglie ed il figlio, un pomeriggio, se ne sono andati mentre lui era fuori. Siamo pertanto di fronte ad un testo forte e senza peli sulla lingua in cui si riversano riflessioni personali ed epocali che testimoniano come 18 mila giorni sono stati sufficienti a mutare radicalmente le prospettive e le aspettative sociali passando da un tempo in cui il lavoro era un diritto ed elemento fondante dell’umana dignità, dichiarato e garantito da un articolo fondamentale della nostra Costituzione, all’oggi, dove invece la parola d’ordine è la precarietà, dove tutti devono essere fungibili e licenziabili in nome dell’interesse superiore di un’economia in buona salute. Ma per chi? Per i padroni che così possono fare più utili? Non certo per il lavoratore divenuto ormai oggetto di veri e propri ricatti sociali! L’entusiasmo fragoroso con cui è stato salutato al termine questo spettacolo, pur non privo di pecche (la più evidente delle quali è forse la non convincente incisività: molte sono infatti le pause di una narrazione comunque impreziosita dalle note struggenti del cantautore cuneese), è la fotografia più calzante di come gli autori abbiano colto nel segno portando in scena un malessere ormai diffuso e sempre più preoccupante in questo paese ormai in crisi irreversibile!
Gli scatti inseriti nell’articolo sono stati gentilmente concessi dal Teatro Duse di Bologna – Fotografie di Nadia Cadeddu e Alex Astegiano