1954-2014: Lo schermo che ha cambiato l’Italia (Il Tempo)

Creato il 27 dicembre 2013 da Nicoladki @NicolaRaiano
Alle undici del mattino e non alle 5 della sera. Alle undici del 3 gennaio 1954 Fulvia Colombo, prima annunciatrice, tiene a battesimo con il suo volto morbido, un sorriso e la propria voce, la nascita della televisione italiana. Da allora sono passati 60 anni e la tv non è ancora in età da pensione. Che poi si dice tv ma si scrive Rai, in un’equivalenza durata quasi trent’anni, da quel 1954 sino al fiorire delle televisioni commerciali, tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, anni che avrebbero rotto il monopolio della televisione pubblica.
Il primo giorno per la televisione fu pionieristico: tre giornalisti sul marciapiede di Corso Sempione a Milano a spiegare il Palazzo Rai, e poi un Ministro, un prelato, le Autorità insomma; in un’Italia che aveva ancora un rapporto sacrale con il potere e con i suoi rappresentanti, mica la casta di oggi. Primo programma di quel battesimo catodico sarà «Arrivi e partenze», presentato da Mike Bongiorno, figlio di un siciliano emigrato in Usa: trama della trasmissione presentare personaggi in arrivo o in partenza da Roma. Comincerà da lì quella che il semiologo Umberto Eco racconterà come la fenomenologia di Mike Bongiorno, un linguaggio nato con la tv, intriso di didascalie e di semplicità, ottimista e leggero. Un linguaggio che diventerà la lingua di molti italiani che non ne conoscevano una, nel senso identitario del termine, sino ad allora. In quel primo ciclo di arrivi e partenze Bongiorno incontrerà anche Giuseppe Ungaretti, il poeta, personaggio di punta della cultura italiana ed europea.
Oggi, con la tv che diventa sessantenne, chiedersi come sia cambiata l’Italia e il linguaggio della televisione, è in fondo argomento da poeti. «E subito riprende il viaggio, come dopo il naufragio, un superstite lupo di mare», così scriveva Ungaretti nella sua Allegria di naufragi. I superstiti, oggi, nella tv contemporanea chi sono? I presentatori, le facce, gli show, i format, i talk? Difficile dirlo perché anche la cattiva maestra catodica sembra aver compiuto un proprio viaggio all’inverso, come se per contrappasso, dopo aver insegnato l’italiano a un Paese intero, avesse scelto di farci tornare di colpo analfabeti.
La prima Rai e la prima tv, ma anche quella giovane degli anni Sessanta e Settanta, su sino agli Ottanta, sono state prima di tutto conquiste di linguaggio e di mezzi. Nuove frontiere di tecniche e di racconto. Si parte dal bianco e nero e si arriva al colore. Si parte da un solo canale, il primo, e si moltiplicano. Poco dopo il suo battesimo nel 1954, che la stampa quotidiana ignorerà, la televisione comincerà la sua crescita. Per vocazione di massa concorrente dei settimanali popolari, dalla narrazione ai protagonisti, attori, star, presentatori, diventerà essa stessa il centro dei giornali, prima settimanali e poi anche quotidiani. Ma soprattutto si allargherà.
Il suo palinsesto e le sue ore di programmazione cresceranno di anno in anno, passando dall’inizio di poche ore, 20-23.30, a 18-23.30 e poi su su, sino a spalmarsi per ventiquattr’ore dentro la giornata degli italiani. La sua crescita oraria oltreché aumentare l’appetibilità pubblicitaria e d’impresa del mezzo, segnerà anche un logico aumento dei programmi e dei generi, l’ampliarsi dei canali, ma soprattutto la crescita, esponenziale, dei telespettatori.
In dieci anni, dal 1954 al 1964 la tv passa da 24 mila abbonati, quelli degli esordi, a oltre 5 milioni. È l’Italia del boom che cresce assieme alla sua rappresentazione in tv, canta a Sanremo, si specchia nello sport, si identifica in Mike Bongiorno, Corrado, Pippo Baudo, Enzo Tortora, i grandi presentatori, icone di decenni di spettacolo. La televisione in questi sessant’anni è stata industria, produzione, consumo ma anche racconto di una nazione intera. Sono passate sei decadi da quando Walter Molino, su «La Domenica del Corriere», dedicò la sua copertina al nuovo media di allora. Una famiglia italiana borghese, nel proprio salottino, con un libro per terra e la gioia che esplode davanti alla televisione. Perché la tv è emozione.
Oggi, che i linguaggi dei media fanno i conti con la molteplicità dei canali, del web, delle piattaforme, degli smartphone e di tutto il resto, i programmi che in tv resistono sono i programmi che emozionano. Grandi fiction, sport, calcio in testa, talent a caccia di grandi interpreti, reality di pancia, infotainment e talk show in grado di non nascondere le realtà che si producono giornalmente. Perché questa è la forza tele-visiva. Ci ha fatto vedere lo sbarco sulla luna, l’assassinio di Kennedy a Dallas, il crollo del comunismo e del Muro di Berlino, la fame nel mondo, gli Oscar e la miseria. Tutto attraverso le immagini. Ha dispensato premi e giochi, carriere e cadute, svaghi e moviole. A pensarci bene, sempre di arrivi e di partenze si trattava. Chi vince e chi perde. Chi resta. E L'umanità che si (e ci) consuma. Perché, come cantavano Cochi e Renato, «c'è sempre qualcuno che parte, ma dove arriva se parte?». Magari in televisione. Happy birthday, cara (Rai) tv.
Massimiliano Lenziper "Il Tempo"

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