di Federica Castellana
Il 2014 è stato per l’Unione Europea soprattutto un anno di transizione istituzionale. Prima la lunga campagna elettorale, poi le elezioni di maggio che hanno portato alla formazione e all’insediamento del nuovo Parlamento. Quindi – secondo le nuove regole del Trattato di Lisbona – l’avvio del complesso iter per il rinnovo dei vertici europei: la nuova Commissione Juncker, il nuovo Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e per la Politica di Sicurezza Comune Federica Mogherini e il nuovo Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, che però sono entrati in carica solo tra novembre e dicembre.
Ma il 2014 è stato anche, e ancora, un anno di sostanziale stagnazione economica, con la recessione che continua a farsi sentire e non accenna a mollare la presa. La crescita non è andata oltre l’1,3% nell’Unione (0,8% nell’Eurozona) e i livelli di disoccupazione restano elevati (rispettivamente al 10,3% e all’11,6%). La tanto attesa ripresa economica prevista per il 2015 sarà comunque debole. I tassi di crescita stimati si limitano all’1,5% per l’intera Unione e all’1,1% per la zona Euro e la disoccupazione dovrebbe scendere rispettivamente al 10% e all’11,3%.
In questo contesto di incertezza economica e transizione istituzionale come si è preparata l’Unione al 2015? Quali le mosse intraprese dalla sua governance per affrontare un nuovo, ulteriore anno di crisi? Per sopravvivere nell’economia globale le principali intenzioni sono il consolidamento del mercato unico, una crescita più sostenuta e la prevenzione di crisi future. Tutto questo seguendo tre grandi direttrici: rafforzamento del mercato finanziario comune (con l’unione bancaria e l’armonizzazione di prodotti, pratiche e tassazione); credibilità e responsabilità fiscale negli Stati membri (attraverso il controllo di deficit e debito pubblici e la lotta all’evasione fiscale); rilancio della competitività europea (ovvero stimoli agli investimenti, riforme dei tessuti produttivi, semplificazioni burocratiche e aperture commerciali).
Le misure adottate – Il Consiglio europeo del 18 dicembre ha dato il via libera al cosiddetto “Piano Juncker” di 315 miliardi di euro per il triennio 2015-2017. Lo strumento promosso dal nuovo Presidente della Commissione dovrebbe essere operativo dal prossimo giugno con lo scopo di mobilitare nuove risorse – sia pubbliche che private – per progetti strategici e a supporto delle piccole-medie imprese, ovviando così al drastico calo di investimenti registratosi negli ultimi anni (meno 434 miliardi di euro dal 2007). Si basa su un fondo di garanzia (EFSI, European Fund for Strategic Investments) costituito dalla Banca Europea per gli Investimenti (BEI) e dal bilancio UE per 16 miliardi iniziali, il quale dovrebbe fare da leva per ulteriori prestiti ed eventuali contributi volontari dei Paesi membri. I progetti finanziati saranno decisi da un’apposita task force in base alla fattibilità e a prescindere dalla nazionalità, con priorità per trasporti, energia, ricerca e sviluppo, formazione e reti digitali. I dettagli del Piano saranno trattati nel Consiglio europeo del prossimo 12 febbraio, ma le prime perplessità sono già state avanzate da eurodeputati e Stati membri: dalle incertezze sull’effetto moltiplicatore all’entità poco ambiziosa del Piano (solo lo 0,7% del PIL dell’Unione), dal rischio di vedere approvati progetti di scarso interesse relativo fino al dubbio sull’opportunità di rilanciare invece la domanda interna in termini di consumi.
I progressi in materia di unione bancaria rientrano nella strategia di prevenzione e mutualizzazione dei rischi, almeno nell’area Euro. Il Meccanismo di Supervisione Unica (SSM, Single Supervisory Mechanism) è stato inaugurato dalla Banca Centrale Europea lo scorso novembre dopo aver completato la valutazione degli istituti bancari. Al momento, quindi, la BCE vigila direttamente su 120 gruppi bancari dell’Eurozona. Il Meccanismo di Risoluzione unica (SRM, Single Resolution Mechanism) volto alla ristrutturazione delle banche in default è entrato in vigore il 1° gennaio, insieme al relativo Fondo che nei prossimi 8 anni arriverà a 55 miliardi di euro. Il passo successivo – ovvero l’allineamento della regolamentazione finanziaria – sembra però lontano: sulla Tobin Tax (la tassa sulle transazioni finanziarie), per esempio, dopo anni di dibattito ancora molti Paesi restano contrari.
Per quanto concerne l’unione monetaria (UEM), il nuovo anno si è aperto con l’ingresso nell’area Euro della Lituania, il 19° Stato membro ad adottare la moneta unica. La BCE di Mario Draghi intanto, consapevole della congiuntura ancora difficile, porta avanti politiche monetarie espansive facilitando il credito e ricorrendo anche a misure non convenzionali come l’acquisto di titoli di Stato. Peraltro Draghi ha più volte confermato l’impegno a fare “tutto quello che è necessario” nell’ambito del mandato della BCE per tutelare la moneta unica.
Va menzionato poi il cammino sempre più tortuoso del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), l’accordo tra UE e Stati Uniti per l’istituzione di un’area economica integrata tra le due sponde dell’Atlantico. Nonostante le operazioni trasparenza da parte della Commissione europea – che ha reso pubblico il mandato negoziale e indetto consultazioni nazionali – e le rassicurazioni circa il raggiungimento di un fair deal, l’opposizione al trattato commerciale resta vasta ma spesso di matrice più che altro ideologica. Le maggiori perplessità si concentrano su due questioni: il mantenimento degli standard di qualità europei e la clausola sulle controversie tra Stati ospitanti e compagnie (ISDS, Investor-State Dispute Settlement) risolvibili con ricorso ad arbitrato internazionale in caso di leggi discriminatorie.
Non mancano ovviamente le attività di ordinaria amministrazione, in dialettica costante Commissione-Parlamento-Stati membri. Da un lato, l’implementazione delle regole di bilancio secondo il meccanismo di coordinamento e monitoraggio costituito dal semestre europeo, dal Patto di Stabilità (con annessi Six-pack e Two-pack) e dalle procedure di infrazione. Dall’altro, l’approvazione del budget annuale all’interno del MFF (Multiannual Financial Framework, il bilancio settennale) che è arrivata a dicembre – come al solito sul filo del rasoio e dopo mesi di scontri – con l’accordo sui fondi destinati ai pagamenti in sospeso e l’aumento della copertura per i programmi Horizon 2020, Erasmus+, Frontex e per la supervisione bancaria.
I problemi irrisolti – Nonostante le misure in essere, lo stato di salute della governance economica europea non è particolarmente buono. D’altronde ne è sintomo tangibile il costante calo di consensi e la crescente ostilità da parte dell’opinione pubblica europea, soprattutto nei confronti del pilastro economico dell’edificio UE. Le cause sono molteplici: alcune ormai datate, altre più recenti.
Innanzitutto la difficile architettura istituzionale, specialmente quella economica. Procedure e meccanismi farraginosi, complessi e oscuri che non fanno che peggiorare l’eterna questione del deficit democratico di alcune istituzioni europee. A tal proposito si inserisce il nodo della leadership in genere: il susseguirsi, cioè, da ormai qualche decennio di eurocrati incolori alla guida dell’Unione e la necessità, invece, di personalità carismatiche, creative e innovative che sappiano affrontare la situazione attuale di crisi economica e l’aumento dei movimenti politici euroscettici in quasi tutti gli Stati membri.
Prosegue inoltre lo scontro sulla gestione dei conti pubblici nazionali tra il fronte rigorista e quello più flessibile, con ripetuti screzi, richiami e accuse. Diversi Paesi (tra cui Italia, Francia e Belgio) si stanno opponendo infatti alla stabilità e al pareggio di bilancio a tutti i costi e puntano invece a una interpretazione non restrittiva dei vincoli europei, che consenta di sforarli e di ottenere sospensioni, proroghe o margini di manovra invocando le circostanze eccezionali e la clausola di “severa recessione”.
Infine, un altro tema problema che riguarda non solo il settore economico, ma l’intera governance europea: al di là di idealismi e propaganda, nei fatti gli egoismi e le resistenze nazionali continuano decisamente a prevalere sulla logica comunitaria e gli affari interni hanno ancora la meglio sulla prospettiva del “fare squadra”. Un’Unione Europea divisa e indebolita, infatti, gioverebbe soltanto ad altri attori globali.
Come unico barlume di speranza non resta che un’inversione di rotta nelle priorità economiche dell’UE. Finora il risanamento dei bilanci nazionali è stato sempre anteposto agli obiettivi di crescita, occupazione e investimenti. Il Piano Juncker – pur con le sue incognite – potrebbe essere un primo passo verso un approccio diverso nella governance economica europea, meno ossessionata dai conti pubblici e più orientata alla crescita e alla flessibilità. Proprio quest’ultima è stata tra l’altro citata per la prima volta nel documento di conclusione dell’ultimo Consiglio europeo, insieme all’apertura verso lo scorporo dal Patto di Stabilità dei contributi statali al Piano Juncker.
Bisognerà tuttavia aspettare quanto meno il medio periodo per valutare l’impatto effettivo del nuovo Piano di Investimenti, che dipenderà anche dalle riforme attuate sia a livello nazionale che europeo.
* Federica Castellana è Dottoressa in Relazioni Internazionali (Università di Bari)
Potrebbero interessarti anche:
Atene sfida la troika: fine della recessione o propaganda?
Una nomina a Mrs. PESC può cambiare davvero la politica…
L’elezione di Juncker e il futuro dell’Unione Europea