Uno
dei miei tanti limiti è il non riuscire ad arrivare neppure al secondo
capoverso degli articoli che trattano di quei grovigli di srl coi quali una
razza di individui a me aliena più dei Grigi di Zeta Reticuli riesce a cavar
soldi dall’erario pubblico, dagli enti previdenziali o da soci sprovveduti, poco
dentro o poco fuori il frastagliatissimo contorno del diritto societario. Con
le aziende della famiglia Renzi mi sono armato di pazienza e mi sono inflitto
una duegiorni di full immersion, recuperando tutto quello che ho trovato in
rete, sfogliando codici e gazzette ufficiali, leggendo sentenze e statuti,
arrivando a costruire pure il classico schemino coi rettangolini e le freccette.
Era solo un pretesto, l’ho capito quando ho messo tutto via avvertendo con
grave imbarazzo che in me prendevano forma Bouvard e Pécuchet con le facce di Lillo
e Travaglio: in realtà non mi interessava affatto capire quanto di illegale
possa esserci stato nella gestione di quegli affari, volevo solo metter naso
nel milieu, ficcar le mani nel letame dal quale è nato il fiore che oggi l’Italia
s’appunta in petto. E devo dire che non sono stato deluso nelle aspettative,
perché una cosa è lo studio di un carattere a partire da tratti biografici
tutto sommato aspecifici, un’altra è il coniugarli all’esempio che hai avuto in
tu’ babbo.
Un babbo che probabilmente uscirà pure pulito dall’inchiesta in
corso, ma che senza dubbio mostra tutta la patognomonica del maneggione di
provincia. Sembra quasi di vederli, padre e figlio, una ventina d’anni fa,
discutere di affari: embrione di una riunione del Consiglio dei Ministri. «La
Nazione esce col Rigoletto in allegato, ocché tu ci vedresti a strillonarlo, un
gobbo in abiti del Seicento o un Verdi in palandrana?». «Il
Verdi costa meno e fa la sua porca figura. Piuttosto c’è il negro che continua
a rompere il cazzo per la questione dei contributi, ocché si fa, glieli si paga
o all’Inps abbiamo qualche amico?».
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