Non leggevo un “volumone kinghiano” con tanto accanimento dai tempi di L’ombra dello scorpione (Stephen King, Bompiani, 1985): nottate passate con gli stuzzicadenti alle palpebre, pur di non cedere al sonno. Ecco, sì, mi è capitato anche con quest’ultimo romanzo, ma, dato che al mattino non potevo accampare scuse con la sveglia, in serata mi ripromettevo di spegnere prima delle due. Non sempre ci sono riuscita.
Dieci lunghe notti in compagnia di Jake Epping – o dovrei chiamarlo George Amberson? Lui è entrambi, dipende dall’epoca in cui si muove e da quanto è in confidenza con chi gli sta accanto – e della sua intenzione di salvare Kennedy. L’idea, in realtà, non è sua: deve subentrare all’amico Al, che, per primo, ha tentato il colpaccio. Ora, Al non è più in grado di riprovarci e passa il testimone a Jake.
Fin dalle prime righe questa vicenda mi ha ricordato un vecchio cavallo di battaglia dell’autore: I Langolieri (il racconto è nell’antologia Quattro dopo mezzanotte, Sperling & Kupfer, 1999) e le loro fauci ingorde che sbranano il passato. Sì, lo so, il paragone suona strano, eppure la parte finale di 22/11/’63 mi ha confermato questa impressione. L’apocalisse è dietro l’angolo e il battito d’ali di una farfalla può scatenare disastri inauditi, ma non fatemi parlare di farfalle. In questo libro la cosa viene ribadita di continuo. A questo punto, vi dirò, a me le farfalle spaventano più di un leone a dieta.
Mettiamola così: il nuovo romanzo di King è un Life on Mars – splendido telefilm fanta-poliziesco che racconta di un traumatico balzo nel passato e di un delitto da sventare (in Italia è stato trasmesso da Fox Crime) – in salsa Ricomincio da capo. Ricordate il terribile “Giorno della Marmotta” di Bill Murray? Beh, là un nuovo giorno – purtroppo lo stesso – prendeva vita con la radiosveglia urlante I Got You Babe degli UB40; qui, invece, abbiamo la buca del coniglio. Uno strappo nella dimensione temporale celato nello sgabuzzino di un ristorante: quello di Al.
Questa finestra temporale ti trasporta sempre sul piazzale della fabbrica tessile di Lisbon Falls, alle 11.58 del 9 settembre 1958. Se torni nel presente tutto si azzera. Una marmotta piuttosto complicata da gestire!
Fate attenzione alla data. L’omicidio di Kennedy è avvenuto nel ‘63 – semmai il titolo del romanzo non fosse abbastanza chiaro –; ciò vuol dire che Stephen King ha tutto il tempo di far sguazzare il nostro Jake tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, raccontandoci di George Amberson e della sua seconda vita, di quanto siano amabili gli americani – così Happy Days – e di quanto siano razzisti.
I vicini di casa si scambiano cortesie, ma sbirciano i vialetti altrui, cercando auto estranee per stabilire se ognuno dorme nel proprio letto. Tutti fumano ovunque, i canali televisivi si pigliano a fatica, in compenso la radio passa della gran musica.
La storia americana – la piccola e grande storia – vista con gli occhi di un estraneo, alieno per l’epoca in cui i fatti avvengono, o, forse, è soltanto una scusa per dar modo a King di mostrarci gli orrori quotidiani e i moralismi in camera da letto. Beh, non in tutte, non in quella di George, almeno.
Riuscirà il protagonista a salvare Kennedy?
Temo che la risposta non sia poi così importante o determinante. La faccenda occupa solo un terzo del volume, e stiamo parlando di un libro di 767 pagine!
Stephen King, infatti, concede molto più spazio, allungando parecchio il brodo, alla storia d’amore – e allo scambio di nudi convenevoli – tra la spilungona Sadie e George/Jake e alle gesta da insegnante modello – così moderno, così 2012! – di Jake nel ridente paesino di Jodi.
Prima, è il caso di accennarlo, il nostro eroe era stato un feroce assassino a Derry – ma aveva i suoi buoni motivi –, un furbo scommettitore che già conosce l’esito degli incontri, un guardone che osserva la vita familiare di Lee Harvey Oswald. George è stato molte cose, alcune solo come passatempo – deve dare il suo meglio nel novembre 1963 – , altre per rimediare agli errori di un passato che a qualcuno non ha concesso sconti.
Se Derry vi dice qualcosa, probabilmente è perché ha dato i natali a It, quel clown grande e grosso dal sorriso poco raccomandabile. Anche stavolta Derry non ne esce bene, probabilmente il pagliaccio carnivoro è davvero nascosto lì, Jake lo intuisce e King lo sa per certo, e, con lui, i lettori che lo seguono da tempo.
Il romanzo sa avere anche momenti divertenti – a volte persino esagerati, roba da comiche, per questo aspetto vi rimando allo scambio di torte in faccia da pagina 382 – ma si sente che prima o poi, ci sarà una nuova grana da risolvere. Il tempo non vuole essere cambiato, la storia non vuole variare registro, gli avvenimenti ci tengono a essere lasciati in pace.
Eppure George Amberson sta lavorando per mettere le cose a posto. Una volta terminato quel lavoraccio di taglia e cuci temporale, tutto dovrebbe girare meglio, come il mozzo di una ruota ingrassato a dovere. O no?
È proprio vero che la via per l’inferno è lastricata di buone intenzioni! Il povero Jake lo scoprirà a sue spese, noi anche. Ce ne rendiamo conto a pagina 677 – ci attende un nuovo Giorno della Marmotta – eppure io, fossi stata in King, il libro l’avrei terminato lì.
Vediamo allora – ve l’avevo promesso – qualche parere scovato in rete: le accuse più ricorrenti a questo libro vanno dall’intento politico d’appoggiare le scelte di Lyndon Johnson, divenuto Presidente in fretta e furia alla morte di JFK – attestato dal fatto che, quando Jake cambia il corso della storia, il mondo non ne esce migliorato, anzi! – , alla traduzione di Wu Ming 1 non sempre all’altezza dell’originale – su questo non posso aprire bocca, già vi dicevo che il mio inglese si ferma a the book is on the table –; dalla mancanza d’originalità di King nel raccontarci i fantasmi che albergano nella testa bacata di Oswald, alla storia d’amore tra il protagonista e la bella Sadie, troppo presente nella vicenda, quasi a scalzare il resto. C’è anche chi trova strano il facile accasarsi di Jake Epping nel ‘58 – vent’anni prima della sua effettiva venuta al mondo – e il suo integrarsi senza scossoni a Jodie, con fasulle credenziali d’insegnante – la sua laurea lì non vale niente e se ne procura una comprandola per posta.
Credo siano tutti dubbi legittimi, per questo avrei fatto terminare il libro novanta pagine prima, ci saremmo levati di torno ben due fattacci: la realtà distorta dopo il fallimento dell’attentato a Kennedy – bell’esempio di si stava meglio quando si stava peggio – e l’happy end un tantino zuccheroso.
Eppure, come già vi dicevo, questo libro l’ho praticamente bevuto. Segno che, pur con qualche caduta nella tensione narrativa e con una soap opera che gli ha preso la mano, Stephen King riesce ancora a proporre un libro che pesa come un mattone... ma non lo è.
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