22×150: “17 marzo 1944″ e “Tanto rumore per questo”

Creato il 20 gennaio 2012 da Fabriziofb

Ripubblico, qui, il contributo mio (Tanto_rumore_per_questo; note), e quello di Luca Rinarelli (17 Marzo 1944), alla mostra 22×150, curata da Patrizia Lidia Grandis.

17 marzo 1944 (Un anniversario dell’Unità d’Italia) – esposto in Torino alla mostra “22×150″, Galleria “La Seconda Attenzione”

di

Luca Rinarelli

   Scese le scale del condominio con le mani in tasca. Rapido, con la testa altrove. Al pianerottolo del secondo piano, urtò la signora Corio. Le due sporte di stoffa sporca, flosce a causa del razionamento, rotolarono verso il basso. Alberto si scusò, tentando di parare la salva di insulti in torinese stretto. La vecchia si chinò a raccogliere, illuminata dal cielo plumbeo che faceva capolino dalla finestra che dava sul balconcino razionalista a semicerchio della scala.

   Quando poggiò il piede sul marciapiede di via Pianfei, la maggior parte delle persiane delle Case Municipali erano chiuse. Qualche panno steso, due voci in qualche appartamento che stavano litigando. Il palazzo all’angolo con via Aquila era abbandonato. Come il giorno prima. Come ormai da un anno, sventrato dalle bombe.

   Alberto alzò il bavero del giaccone di pelle che aveva tolto al cadavere di un motociclista portalettere della Wehrmacht, la settimana prima.

Gran bel giubbotto. Come se questo vento feroce non esistesse.

 

Il berretto di lana da pescatore riusciva a tenergli sufficientemente calda la testa. Svoltò in via Ascoli e raggiunse infreddolito la piola all’angolo con via Capua. Di fronte alla porta del locale, da cui proveniva il vociare ovattato, Alberto tolse le mani dalle tasche, lasciandone una vuota e l’altra rigonfia e pesante.

   Entrò. Fu assalito da una nebbia maleodorante di tabacco. Alla sua destra, quattro uomini stavano giocando a carte. Il loro tavolo di legno grezzo era mitragliato di cerchi violacei.

“ciao, Sergio. Dammi un mezzo litro.”

“Ohi, Albi. Cum’alè? Ti vedo pensieroso.”

“Di questi tempi, sarebbe incosciente non esserlo.”

“Hai visto in via Livorno? Che disastro!”

“Già. Finché non finisce questa guerra, continueranno a caderci le bombe in testa.”

Si accorse di altre voci, dietro la sua schiena. Un altro tavolo.

 

Cristosanto. C’è ancora gente che crede nella vittoria. Dell’Italia. Di quell’Italia. L’onore, l’alleato germanico. Il Duce. La Repubblica.

Ci vorrebbe, una Repubblica. Ma vera, non questo fantoccio nero.

 

Alberto scolò tutto il liquido rosso scuro che riempiva la caraffa. Si guardò attorno. Legno. Legno ovunque. Bottiglie esposte su scaffali di legno, fino al soffitto. La radio di legno, appoggiata sopra la credenza. Sergio l’accese.

L’EIAR.

Una fanfaretta gracchiante. La solita voce di Martini, dell’Istituto Luce. Gracchiante anche lui.

 

Quest’oggi, il Duce…

 

Fanculo. Fanculo a tutto.

 

Alberto prese un gran respiro. Tossì subito dopo. Troppo fumo, nell’osteria.

“Sergio! Una grappa! Un bicchiere pieno, per favore!”

Lasciò le monete sul bancone. Uscì, di nuovo con le mani in tasca.

Piazza Regina Elena deserta.

Voltò la faccia alla sua destra. Via Livorno. Livida e deserta.

Un enorme cratere a centro strada.

Merda. Il 14.

 

Il tram numero 14 piegato su un fianco. Inchinato in avanti, mezzo sprofondato e accartocciato dentro alla voragine.

Ecco. Ecco perché deve finire. Basta.

Non mi piace. Non mi piace per niente, cosa sto per fare.

 

Alberto si rollò una sigaretta e ripartì. Nessuno per strada. 

Arrivato in corso Regina Margherita, svoltò in direzione centro.

Sotto. Il sottopasso.

 

Alberto prese un lungo respiro e iniziò la leggera discesa. Nella tasca sinistra del bel giubbotto di pelle, il metallo gli raffreddò il palmo. Sotto il ponte della ferrovia si fermò.

Attese un quarto d’ora.

“Pssss!!”

Con i tacchi fece un giro di centottanta gradi. Lo vide, nascosto in un anfratto tra i pilastri.

“Giàcu! Sun mì!”

“Ven sì!”

Dopo essersi guardato attorno, prese a camminare veloce verso il punto da cui veniva la voce.

Ogni volta che lo vedo, sembra più magro e più piccolo.

 

Il tipo era ricurvo sotto il peso della sua gobba. Berretto di lana verde, cappotto con molti buchi. Guanti con le dita mozzate.

“Ciao. Dove?”

Silenzio.

“Dove sta?!”

Faccia spaventata.

“Allora?”

“Qui dietro. Via Principessa Clotilde 23 bis. È uno scantinato.”

“Lo immaginavo. Grazie. Fai attenzione. Ciao.”

***

Ormai è buio. Bene.

 

Alberto armeggiò col cacciavite. Riuscì ad aprire.

Buio.

Scese le scale. Una sedia di legno piuttosto grande, di cui si intravedevano a malapena i contorni.

Sembra un trono.

 

Ai braccioli erano legati due polsi.. Un uomo seduto. Sudato. La canottiera era sporca di sangue. La testa calva era molle, il mento appoggiato sullo sterno.

Bastardi.

 

Si accese una luce fioca, sul fondo, davanti all’ultima parete di mattoni a vista.

“Alberto! Che cazzo ci fai, qua? Come sei entrato?”

Un respiro profondo.

“Ciao, Pino. Vedo che hai finito il lavoro, per oggi.”

Pino, anche lui strizzato dentro una canotta madida, si asciugò le mani con una pezza di stoffa lurida.

“Che vuoi? Gipo! Luigi! Venite qua, che abbiamo visite!”

Prima che i due uomini giungessero, Alberto estrasse la pistola dalla tasca.

La Luger del motociclista.

 

Fece scarrellare l’arma.

“Ma che…”

Alberto premette il grilletto. Il primo tipo, che stava arrivando da dietro Pino, crollò a terra.

Poi Alberto scattò, voltandosi indietro. Colpì il fegato dello smilzo, che gli stava saltando addosso. Di nuovo di fronte a Pino.

“Che vuoi fare, Albi?”

Lui annusò l’aria. Sudore. Cordite. Sangue. Stanchezza.

Odio.

Pino si passò la lingua sul labbro superiore.

Ti ho voluto bene, Pino. Non credere. Davvero. Ma certe cose… certe cose uno… sai com’è… uno non può far finta di non vederle. Non si può.

 

Alberto fece un giro con le pupille, senza staccare il cervello da chi gli stava di fronte.

Mattoni scrostati a vista, volta a botte. Oscurità.

Tanta oscurità.

Pino mosse la mano destra. Una saetta. Dopo mezzo secondo aveva una pistola pronta al fuoco.

Alberto schiacciò con l’indice ancora una volta. Il ginocchio di Pino si tinse di rosso e lui sprofondò al suolo. Un urlo acuto.

“Non ci provare, Pino. Ti ho detto che sono entrato nella Garibaldi?”

“Non dire stronzate! Mi pigli per il culo? Tu, un rosso?”

Alberto percepì con chiarezza le sue palpebre che si gonfiavano. In quel momento, vedeva tutto appannato.

Cristo. Ma perché ci siamo ridotti così?

 

“Porca troia, Pino. Hai appena finito di torturare questo poveraccio. Cosa ti è successo?”

“La guerra è una brutta bestia, Albi. Questo stronzo è un traditore. Come te. Cazzo, Albi. La Patria. L’Italia. Stai combattendo contro la tua stessa madre. Lo sai che giorno è oggi?”

“Il 17 marzo. Perché?”

Pino rise. Sguaiato.

“Ottantatré anni fa è nato il Regno d’Italia. Unito. È il nostro compleanno, in fondo.”

Gran bel compleanno di merda, Pino.

 

Pino, che ormai aveva le mani all’altezza della testa, continuò a ridere. A piangere. Entrambe le cose assieme.

“Alberto. Perché non dici la verità?”

Silenzio.

“Perché non dici che hai paura che la tua donna torni con me, visto che era mia?”

Alberto fece fuoco.

Pino stramazzò all’indietro.

Addio, Pino.

 

Silenzio.

Buio.


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