23° FCAAAL – SWAHILI TALES di Alessandro Baltera, Italia/Tanzania, 2012, 37′

Creato il 11 maggio 2013 da Masedomani @ma_se_domani

Breve trilogia in bianco e nero sull’Africa di oggi, tre storie di uomini in Tanzania ai margini del progresso: Lo sterco del diavolo, sul lavoro nelle miniere d’oro che vengono vendute alle multinazionali; La lingua cinese, su un villaggio di pescatori acquistato da una compagnia cinese che vuole realizzarvi un resort; Il porto della pace, sui guaritori esorcisti di fede evangelica. (dal pressbook)

Gli italiani hanno una lunga tradizione di documentaristi ma, a differenza ad esempio di francesi e britannici, il loro lavoro da noi è sempre stato molto poco apprezzato. A parte pochissimi, ammanicati con le reti televisive, sono sempre stati considerati cinematografari di serie B, costretti a lavorare con budget ridottissimi che fino a qualche decennio fa li obbligavano a risparmiare anche sulla pellicola e ad utilizzare, seppure a malincuore, il bianco e nero. Per fortuna adesso, con l’avvento del digitale, almeno questo problema è risolto: macchine comode e leggere danno la possibilità di girare anche in situazioni sfavorevoli o addirittura disagiate ore e ore di riprese, contenute in schedina che stanno in una tasca anziché in pesanti, poco maneggevoli e facilmente deteriorabili “pizze”.

Qualcuno può spiegarmi perché girare un video in digitale, perciò a colori, per poi in post-produzione editarlo in bianco e nero? Lo comprendo perfettamente per un’opera di fiction, dove l’uso creativo del colore o del non-colore da parte del regista è e deve essere totalmente personale (che dire sennò della radicale estremizzazione di BLUE di Derek Jarman?), ma non lo comprendo affatto per un’opera che, come dice la sua stessa definizione, la realtà la dovrebbe, con umiltà e obiettività, documentare. Ma evidentemente Alessandro Baltera ha idee al riguardo diverse dalle mie.
Comunque questa è solo una delle ragioni che mi ha fatto scalpitare sulla poltrona – l’elenco è lunghetto. Avete presente le telefonate fatte col culo? Dicesi di cellulare infilato nella tasca posteriore dei pantaloni che, quando ci si siede, si accende e chiama un numero a caso – e il ricevente, poveretto, impreca al nulla perché non capisce che diavolo succeda all’altro capo. Stessa cosa qui: macchina da presa a dorso di cammello oppure appoggiata a casaccio, messa in moto da un leone di passaggio. Stop.

Vogliamo parlare dell’audio? Presa diretta con volume a capocchia, a volte inintelleggibile, altre assordante, spesso fuori sincrono, con sottotitoli a vanvera.
E per quale ragione, di grazia, i cartelli con le didascalie che spiegano come, quando e soprattutto perché ognuno dei tre “corti” era stato girato non sono all’inizio ma alla fine dei vari pezzi? Così, finita la lettura, si sentiva bisbigliare in sala un coro di “Ah, ecco!”, riferito ai fatti parecchio nebulosi a cui si era appena assistito.
Pretese “artistiche” molte, risultato frammentario, saccente, pretenzioso, a tratti incomprensibile. Bocciato.


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