Quello che rovina la ricorrenza del 25 aprile a logora pantomima di una guerra civile, come ne fosse la lunga e necessaria coda perché i vincitori non hanno vinto appieno e i vinti non hanno perso del tutto, è la retorica della narrazione epica. Accade, così, che ogni anno si riaprano sempre le stesse polemiche, come ferite mai guarite, e in realtà si tratta di mestruazioni artificiose, indotte dall’estroprogestinico della storia come eterno ritorno, e allora eccoci tutti, o quasi tutti, a ridiscutere se l’Italia sia stata liberata più dai partigiani che dagli Alleati, se la lotta di liberazione abbia avuto pagine di infamia, se si possa fare della data un momento di unità nazionale equiparando le ragioni dei vinti a quelle dei vincitori e perfino se non fosse meglio che l’uscita dal Ventennio fascista avesse transizione meno traumatica. Il fatto è, mi pare, che il 25 aprile non si può più né idealizzare né revisionare più di quanto sia già stato fatto, sicché ogni polemica si è ridotta a mera ombra di una guerra civile tra chi è stato antifascista fin dal 1922 e chi rimasto fascista anche dopo il 1945, mentre sullo sfondo brulica la massa che fu fascista solo dal 1922 al 1945, e della quale non si è estinto il patrimonio genetico di vile conformismo e cinico opportunismo. Questa massa non riuscirà mai a elaborare il fascismo come colpa, né l’antifascismo come riscatto, ma pretenderà di poter rivendicare a pieno titolo il diritto di dare il suo consenso, sempre, a chi è tanto forte da poterlo pretendere: si tratta del paese che riesce a concepire la propria libertà solo in questo cortocircuito della responsabilità, come qualcosa che gli spetti a gratis. L’opposto di come la Germania vive il suo passato nazista, che dunque può dire definitivamente archiviato. A noi italiani non è dato: chi non riesce ad ammettere di aver sbagliato può solo proiettare il proprio sbaglio.
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