2666 di Roberto Bolaño. 5. La parte di Arcimboldi

Creato il 21 dicembre 2012 da Spaceoddity
Come figlio di padre zoppo e di madre guercia, Benno von Arcimboldi (Hans Reiter all'anagrafe) è l'esito di un'accanita asimmetria. Non ama né il cielo, né il mare, né la terra, i regni che i figli di Cronos si spartirono all'inizio dei tempi mitici. Ama le valli in fondo alle distese acquose, quelle distesa di terra e di roccia da vedere in apnea, quando in un'immersione ardita sparisce dalla vista di tutti gli uomini. Esule da ogni convenzione, è uno dei personaggi più schivi, per certi aspetti direi anche refrattari all'empatia che io ricordi di aver incontrato. Il protagonista di La parte di Arcimboldi e, a posteriori, direi dell'intero 2666, romanzo monstrum ed enciclopedico di Roberto Bolaño, è uno dei personaggi più schivi e refrattari all'empatia che abbia mai incontrato.
Alto, altissimo, anzi normale, Hans Reiter è il mito della sorella Lotte, di dieci anni minore, cammina con passi da gigante nella sua copiosissima attività onirica e in una narrazione che sembra ambientarsi in un mondo deserto e scarnificato su cui un giocatore ossessivo-compulsivo abbia tracciato i confini degli stati reali. La storia, così come la studiamo a scuola, è poco più di una partita a Risiko tra culture diverse, un gioco di società dove prevale la più disperata solitudine. La cultura di Roberto Bolaño, la sua conoscenza esatta di cose e luoghi, la sua dimestichezza con scenari diversi, tutto è sorprendente in 2666.  L'autore ha la spregiudicatezza sbalorditiva dell'autodidatta, la precisione del filologo, la mondanità del cronista più smaliziato e pragmatico. Ovunque mi porti (tra la Germania e l'importantissimo Messico), Bolaño non cessa di spiazzarmi: è una guida insieme misteriosa e scatenata, ignara di ogni percorso turistico nella vita di luoghi e persone.
Come le precedenti, e forse ancor più, anche La parte di Arcimboldi è fatta di cortocircuiti e di fughe, talune anche nevrotiche, di improvvise narrazioni periferiche che gorgogliano per pagine e pagine, facendo perdere al lettore il punto di vista unitario e spingendolo a cercare l'energia che convoglia tutta questa urgenza verbale. Lunghi elenchi, anafore e lancinanti (quanto inattesi) bagliori lirici - in uno stile che non annoia mai e si impara presto a riconoscere - avvolgono chi incontri 2666 in un'aura di magia e di torpore elettrico. Il linguaggio è sapido, molto icastico; misurato, ma sprezzante di ogni classicismo di maniera, ricco senza ammiccare mai al lettore e senza, tanto meno, tentare di coinvolgerlo in una qualche forma forzata comunicazione. La lucidità che trasuda dalle pagine di questo romanzo è spietata, non consente abbandono, requie, anche se non diventa azione. Si può indagare a lungo sulla storia che racconta, eppure si rimane con un nulla di fatto, con una figura che compare, poco alla volta, dall'aggiunta di piccoli dettagli: come un puzzle o, appunto, un quadro del pittore milanese Arcimboldi, al quale Hans Reiter si ispira, su vie traverse e molto letterarie, per costruire la sua nuova identità.

2666 è un romanzo obliquo, che procede per tronconi e ricrea, sia pure a partire da scorci, un paesaggio inconfondibile, difficile da dimenticare. Sarebbe ingeneroso e banale attribuire tutto ciò al lungo tempo passato insieme a Bolaño, da La parte dei critici in poi: la verità è che la sua scrittura ha carattere e stile. La penna è cruda, l'occhio vigile, il passo fermo, il cervello e il cuore rapaci nei confronti della vita e del mondo. La parte di Arcimboldi ha senz'altro il merito di sintetizzare tutto il progetto di 2666 in una storia che le contenga tutte, nella consueta fisarmonica di filtri e piani narrativi, che allontanano dal qui e dall'ora del racconto. La parte di Fate e La parte dei delitti vengono recuperati in una storia che sembrava aliena da contatti con le vicende  del deserto del Sonora; perfino l'intermezzo lirico-drammatico de La parte di Amalfitano sembra rientrare nella vicenda di Arcimboldi, sia pure con i tratti di pennellate di dettagli ai margini (quelle che spesso consentono agli specialisti di individuare con certezza un pittore). Semmai, se un limite a questo cappello conclusivo si vuole trovare, direi che la fine ha un sapore affrettato, come di chi abbia premura di comporre un'immagine che altrimenti si teme di perdere: Roberto Bolaño, insomma, giunto a questo punto, sembra dire e non raccontare quella che è la trama nascosta dell'opera, il suo significato, suggerisce (senza lasciarlo) un retrogusto. D'altra parte, 2666 non è, neanche nelle ultime pagine, un romanzo didascalico, poiché autore e personaggio si garantiscono un distacco sovrano da ogni impropria semplificazione e, con ciò, un fascino algido e magnetico.

Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :