φάρμακον*

Creato il 27 aprile 2012 da Abattoir

venerdì 27 aprile 2012 di Noemi Venturella

È notte; apro la vetrina della mia cucina alla ricerca di un’aspirina e mi cadono addosso 2 scatole dai nomi inquietanti, messe proprio lì in punta come fossero state appena utilizzate; una scatola è di halcyon, l’altra è di prazene.
Qualche giorno prima, una persona torturata dall’insonnia depressiva mi dice che con lo xanax riesce a trovare sollievo almeno per 6 ore.
Qualche mese fa, mia nonna, in visita da una neurologa, disse di avere problemi di memoria e di ansia, rifiutò di fare dei test e chiese a gran forza che le si prescrivesse qualcosa.
Sei anni fa andai alla USL di via Castellana per trovare una soluzione ad uno stato d’ansia prolungato e invalidante… beh, non mi fu fatto neanche un colloquio clinico, ma subito mi fu calata dal cielo una bella ricettina per acquistare l’alprazolam. Io ovviamente storsi il naso: una studentessa di psicologia non può che restare basita di fronte ad uno psichiatra che con fare baldanzoso e sereno prescrive una benzodiazepina senza accertarsi del problema del paziente, senza spiegarne le controindicazioni e senza dare delle indicazioni terapeutiche precise. Eppure, io mi fidai di uno psichiatra laureato e specializzato e lo acquistai. Per fortuna, dopo 3 giorni di “prove” e di sonnolenza devastante, il mio Io fuoriuscì da me e gettò il farmaco anti-ansia nel cestino. …Ma pensate cosa sarebbe potuto succedere se le mie tendenze masochistiche fossero state più forti. 

Non voglio parlarvi di tutti gli effetti collaterali dei farmaci e in particolare di quegli psicofarmaci che molti oggi vedono come le soluzioni ai propri disturbi relazionali, emozionali, da sonno, da cibo… senza sapere che probabilmente questi stessi psicofarmaci provocheranno alopecia, obesità, rallentamento psico&motorio (e difficoltà alla guida di qualsiasi veicolo), abulia, apatia, etc.
Né voglio parlarvi dei fenomeni di dipendenza, craving, tolleranza e astinenza che rendono certi farmaci equivalenti alle droghe.
Andiamo oltre, e riflettiamo sul significato del Phàrmakon oggi.
Un significato che è soprattutto simbolico, oltre che chimico.

Che cos’è per noi il farmaco nel 2012, era del botox, della chirurgia estetica, del disagio emotivo, dell’immediato e del godimento, dell’Ego e della farmacopea dei desideri?
Che cos’è una pillolina obslunga nell’era in cui non siamo più abituati alla dimensione del dolore, dell’attesa, del differimento della soddisfazione, del rallentamento (era in cui ovviamente avere un’influenza è una tragedia di immani proporzioni portata all’apice della paranoia collettiva da un web-bacino di ipocondrie di massa post-vomito, post-diarrea, post-febbre e post-tutto) ?

È semplice: oggi il farmaco – che sia un’aspirina o un valium –  è Dio: o se non Dio, quantomeno un Gesù che aiuta, che calma, che realizza i nostri desideri di efficienza (sarà per questo che non possiamo avere una tosse senza imbottirci mente e corpo di antibiotici, aerosol, ricerche su internet sulla peste bubbonica, antinfiammatori e compagnia bella). È un mediatore simbolico tra malattia (= cacca) e salute (= felicità) che ci consente facilmente (con il solo ausilio di qualche sorso d’acqua, a meno che non si tratti di suppostoni) di passare dalla prima alla seconda. È quel qualcosa che può modificare in positivo ansia, flessione dell’umore, agitazione, paura, nervosismo, euforia, impulsività, mania e agevolare il rallentamento dei processi cognitivi (ad esempio di pensiero) e la normalizzazione di ritmi, bisogni e percezioni psicobiologiche (sonno, fame, stanchezza, etc.).
Un farmaco è una sferetta o una goccina infallibile dal potere quasi immenso, oscuro prolungamento di una divinità e concreta manifestazione di una dimensione magico-salvifica che (fin’ora) offre democraticamente (quasi) a tutti la speranza del raggiungimento del benessere.
Insomma, il farmaco è tutto ciò che, quando non siamo in perfetta forma mentale e fisica, consente a noi popoli socialmente “malati” di ottenere ciò che vogliamo: un salvagente di sicurezza sempre pronto a recuperarci in alto mare, con il solo impedimento di recarsi alla farmacia più vicina per acquistarlo e gonfiarlo, nell’attesa di aggrapparci con tutto il nostro passivo peso ad esso. …Quasi meglio di un abracadabra, di una bacchetta magica, del Santo Graal e delle scialuppe di salvataggio della Costa!

Ma anche se potrebbe così sembrare, il farmaco non è veramente la manifestazione in terra dell’esistenza di Dio. Ce lo dimostrano i suoi effetti collaterali e ce lo dimostra la sua doppia eziologia di medicamento che cura Versus oggetto tossico che nuoce; di sostanza salvifica che produce effetti terapeutici Versus sostanza infida che produce effetti sgraditi.
Non a caso, la parola “farmaco” deriva dal greco Phàrmakon*, che significa insieme “filtro”, “pozione”, veleno” e sostanza che per le sue proprietà chimiche, chimico-fisiche e fisiche dotata anche di virtù terapeutiche.
E non a caso, “farmaco” e “droga” nelle sagge lingue anglosassoni sono degli omonimi: l’ambiguo termine drug rinvia direttamente al concetto di droga e al fatto che, se usato in quantità eccessiva o in modo incongruo, un farmaco può avere un’azione contraria a quella benefica per cui è stato pensato.
In particolare, sappiate che nessuno dei farmaci psicotropi è esente da effetti collaterali, più spesso che mai macroscopici e invalidanti.

E poi e poi.
C’è una gran bella differenza tra sintomo e problema.
Una tosse, per esempio, può derivare da un’infezione della condotta respiratoria, ed è quest’ultima che va curata, non la tosse in sé; così come un’insonnia può derivare una uno stato depressivo, ed è quest’ultimo, parimenti, che va curato, e non l’assenza di sonno in sé.
Nel 2012, tutti dovrebbero sapere che non è difficile far sparire un sintomo (tosse, insonnia) con una droga, ma che la cura di una malattia (infezione, depressione) è ben altra cosa.
Gli psicofarmaci, appunto, aiutano a tamponare i sintomi della psicopatologia, ma non riescono ad agire sulle dinamiche più profonde che li generano. Essi contengono i pazienti, ne sedano l’apparenza più fastidiosa, gli aspetti fenomenologici alienati, ma non li accolgono, non li curano veramente, non ne leniscono la reale sofferenza.
Nelle patologie più gravi e invalidanti, ovviamente, sono l’unica soluzione per aprire uno spazio di trattamento libero da disturbi altrimenti alienanti (pensate alle allucinazioni degli schizofrenici) e per migliorare la qualità della vita. Ma pochi sono in proporzione a noi “semplici” nevrotici questi casi.
Nei “nostri”, di casi, bisogna piuttosto liberarsi da un’idea di farmaco come unica soluzione ed unica eucarestia immediata per chi ama giacere nel letto della sua ignoranza, bramando non sapere cos’altro fare per sé. …Uso degli psicofarmaci che li rende paradossalmente degli EREDI DEI MANICOMI, poiché come questi ultimi usati dagli psichiatri (con la connivenza dei loro stessi pazienti) come vere e proprie strutture di contenimento sociale della malattia mentale.

Ciò che è fondamentale è invece imparare a familiarizzare con l’idea che le angosce e il dolore sono parte della vita. E che bisogna imparare a gestirli, non a sedarli con effimere e costose pilloline della felicità che soffocano momentaneamente dinamiche emotive, ricordi, schemi mentali e/o di atteggiamento, rapporti interpersonali, familiari, affettivi, etc. …che comunque restano lì, con la “bocca” solo momentaneamente tappata, per tornar fuori non appena l’effetto-spugna delle goccine svanisce, succhiato via avidamente dal nostro cervello come lo sciacquone del cesso fa avec la merde.

I farmaci, dunque, non sono la soluzione per le difficoltà di vita, di apprendimento, di problem solving, di picciuli, di socializzazione, d’ammore o di solitudine.
Sono piuttosto un grosso imbroglio ai danni della Libertà, dell’Umanità e del Rispetto degli Esseri Umani. E soprattutto sono parte di un grande business internazionale.

Per queste ragioni, la prescrizione di un farmaco non è solo un atto medico; è semmai un atto polisemico da attuare con coscienza tenendo conto della patologia del paziente, della sua personalità, della sua storia.
L’auto-somministrazione è invece più propriamente una follia.

Documentatevi.
Io, se con queste parole riuscissi a farlo capire anche solo a una persona, ne sarei già felice.


N.B.: Dopo questa riflessione, devo citare (e ringraziare) quel mio saggio amico medico che quando ho qualcosa mi dice quasi sadicamente (così almeno suona alle mie orecchie da malata): “non prendere niente!”. 
A buon rendere.

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