Così ricorda con malinconico disincanto Augusto Monti, il “profe” di Pavese del Corso B del Liceo D’Azeglio, nell’edizione piemontese dell’Unità (25 novembre 1956), rammentando la delusione che provò, tornato da Brescia a Torino nel 1923, nell’osservare il cambiamento della cara e vecchia via Roma e, insieme, nel dar conto delle bizzarre frequentazioni del suo allievo più inquieto e probabilmente più amato.
Pavese, “Ces” per gli amici, oppure “Pave”, era un personaggio a sé stante nella cosiddetta “confraternita del D’Azeglio”: faceva parte del gruppo, ma non era “del gruppo”. Era un “lupo solitario”, spaesato, sempre immerso nei propri pensieri. Talvolta riusciva simpatico e sorprendente per le sue battute che traevano origine dallo spirito piemontese, o, meglio, langarolo, un po’ all’inglese, asciutto per non dire aspro, che caratterizzò anche Beppe Fenoglio. Ma per lo più, la sua viva intelligenza era raramente estroversa, e si isolava nell’ombra, dove prendevano corpo i più cupi fantasmi, le tante ambiguità e insicurezze, i dubbi e i vizi che lo abitavano, e soprattutto il più terribile: il “vizio assurdo” (Davide Lajolo, Il vizio assurdo, Il Saggiatore, Milano 1967). Un vizio da cui solo la morte lo avrebbe liberato, com’è noto dal destino che si diede, evocato nei versi diVerrà la morte e avrà i tuoi occhi, appena dopo aver vinto il Premio Strega, nel 1950, a soli quarantadue anni.
Già verso la fine del 1926 quel “tarlo” si insinuò in lui a causa di un tragico evento: il suicidio del suo compagno di classe Elico Baraldi, del quale Cesare, allora diciottenne, fu tentato di seguire l’esempio. In una lettera all'amico Mario Sturani, datata 9 gennaio 1927, possiamo leggere: «Sono andato una sera di dicembre / per una stradicciuola di campagna / tutta deserta, col tumulto in cuore. / Avevo dietro me una rivoltella. » (Lettere, 1924-1944, acura di Lorenzo Mondo, Einaudi, Torino 1966).
Ma fin dal 1925 il suo spirito senza pace aveva subito un duro colpo: era stato travolto dal fallimento sentimentale con una ragazza, forse la prima che aveva cercato di avvicinare. Un fatto, questo, che può capitare normalmente quando si è ragazzi, ma che Cesare aveva vissuto come un drammatico fallimento.
La ragazza si chiamava “Pucci”, un vezzeggiativo di sapore piemontese, e Pavese l’aveva conosciuta proprio al café-chantat La Meridiana, dove faceva la ballerina di fila nella compagnia di Isa Bluette. Da ciò che riferisce il suo compagno di liceo e grande amico Tullio Pinelli, notissimo sceneggiatore cinematografico che accomunò il proprio nome a registi d’eccezione come Federico Fellini, si trattava probabilmente del suo primo amore (Cesare Pavese. Ritratto, film di Andrea Icardi, presentato dalla Fondazione Cesare Pavese in occasione del centenario della nascita dello scrittore nel 2008, e ora visibile).
Ragazze come questa “Pucci”, insieme un po’ soubrette e un po’ cocotte (ma ignoro, in realtà, se lei lo fosse), abbondavano nel mondo della rivista, e mentre altri intellettuali le avrebbero disdegnate, Cesare ne rimaneva affascinato. Lo dimostra anche la successiva passione per Milly, al secolo Carla Mignone, donna, però, questa, che fu artista di classe, della quale è nota la relazione non con il povero ed infelice Pavese, bensì con il bel principe Umberto di Savoia.
Nulla, comunque, Cesare era capace di prendere con leggerezza. Anche l’ambiente più frivolo a quell’epoca, anche il sottobosco culturale, per lui era terreno di scoperta. Ne dà conferma Norberto Bobbio, anche lui della “confraternita del D’Azeglio”, in una intervista raccolta da Alberto Papuzzi nell’aprile 2001 sotto il titolo “La musica nella testa”, quando racconta cheuna sera Pavese, invitato a casa sua, si esibì in uno studio serioso dei testi dell’allora fecondissima coppia Ripp (Luigi Miaglia) e Bel Amì (Anacleto Francini: vi dice nulla la canzone Creola?), che lavorava non soltanto per Isa Bluette, ma pure per Erminio Macario e per l’ineguagliabile Totò.
Insomma: Cesare non si rilassava mai, non si dava tregua, nemmeno quando gli amici se la ridevano beatamente.
E non si “prese svago” neanche con “Pucci”, che pure non gli faceva molto caso, a quanto si evince dal ricordo di quell’appuntamento, distrattamente fissato alle 18 e altrettanto distrattamente mancato, che gli costò una brutta pleurite e un’assenza da scuola di tre mesi.
A questo triste episodio sono dedicati alcuni splendidi versi di Francesco De Gregori, contenuti nella canzone cult Alice, del 1997:
E Cesare perduto nella pioggia
sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina,
e rimane lì
a bagnarsi ancora un po’,
e il tram di mezzanotte se ne va,
ma tutto questo Alice non lo sa.
Sì, tutto questo Alice non lo sa: è qualcosa che non può appartenere alla fantasia onirica di una bambina, fatta di meraviglie e di stupori, ma che invece appartiene alla realtà di un uomo solo e disperato, quale fu nella sua vita fin da giovane uno scrittore come Cesare Pavese, poi tanto amato...
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