30 SETTIMANE....DI LIBRI #4 UN MARTEDI' 20 AGOSTO IN COMPAGNIA DI Grazia Deledda, la figlia di Sardegna

Creato il 20 agosto 2013 da Simoeffe
Cari Lettori eccoci al quarto appuntamento con la RUBRICA 30 SETTIMANE....DI LIBRI che ogni  MARTEDI' vi invita a seguirmi e condividere le ragioni di una lettura o rilettura in modo singolare.
INCONTRO CON GRAZIA DELEDDA

«Basta approfondire la lettura di "Canne al Vento" per accorgersi che non c’è niente di pacificato in questa terra dalle grandi armonie», scrive Dacia Maraini parlando della Sardegna nell’introduzione al romanzo di Grazia Deledda collana «I classici della letteratura. Grandi autrici», "Corriere». Così come non si placa il vento, la sorte, che fa ondeggiare violentemente le canne, metafora dell’umanità e costante  presenza  nel paesaggio e nel romanzo a cui danno titolo

Le canne al vento di Grazia Deledda, un secolo dopo


1913-2013, cent’anni di grandi cambiamenti, di eventi da ricordare comunque, di persone che hanno lasciato il segno e un personaggio che non ha risentito né mai risentirà del tempo che passa, grande scrittrice, l’unica donna italiana alla quale sia mai stato conferito (anno 1926) il premio Nobel per la letteratura:  Grazia Deledda ed  il suo  romanzo Canne al vento.Il suo modo di scrivere, descrivere, narrare, cattura la mente e lo stomaco per quella sua incredibile capacità di raccontare le debolezze umane, il timore delle passioni, la colpa, il segreto, il desiderio di espiazione, il  senso del peccato che mostra tutta la fragilità dell’uomo. Una scrittura senza tempo quella della Deledda che emerge in particolar modo in quest’opera che quast' anno  compie un secolo ma che potrebbe esser stata scritta ieri.
UNA IDEALE INTERVISTA A GRAZIA DELEDDA
 la giovane
- Come era la vita nuorese? 
La vita nuorese che ho spesso descritto era votata al patriarcato,e le donne si opponevano vigorosamente al mio  desiderio di scrivere: lo fecero per prime le mie  due zie, mia  madre, e anche le compaesane. Ma io mi sentivo  diversa dalle donne delle mia età.
-Cosa ti aspettavi dal mondo degli uomini?
Fin da quando ero abbastanza giovane non mi aspettavo  nulla dal mondo degli uomini: i tre esempi familiari mi avevano delusa. Mio  padre moriva lasciando noi  cinque donne Deledda nelle mani di due giovani privi di capacità: Santus preda dell’alcolismo, Andrea della vita licenziosa e ai margini della legalità. Noi donne ci stringemmo fra noi e riscoprimmo una certa melanconica complicità e mandammo  avanti la famiglia, gli uomini si lasciatono trasportare dagli eventi come foglie mosse dal vento.
- Come hai vissuto la tua diversità?
Tanto diversa dalle altre ragazze  tant’è che mi guadagnai - e qui è  il mio carattere deciso della donna che diventerò-  il diritto di seguire  lezioni private. Fu una delle mie  prime vittorie. Non furono tanto le lezioni di italiano ricevute a rendermi la  scrittrice che sono stata, quanto piuttosto le mie   letture: la biblioteca di mio padre è stata un ottimo inizio, ma la vera fortuna fu la biblioteca del professore del Regio Ginnasio - scappato in gran fretta senza pagarci  la pigione- ad arricchire la mia fantasia di scrittrice.
-Cosa ha significato la lettura per poi scrivere?
Se leggere era un sogno, scrivere era  la mia vocazione. Il mio  insegnante di scuola elementare, mi assegnava dei temi da scrivere; alcuni di essi vennero fuori così bene che mi disse di pubblicarli in un giornale. Non sapevo che avrei potuto mandare  i miei racconti. Trovai un giornale di moda e spedii una novella. Fu immediatamente pubblicata  nel  1888.
- Quali le ostilità?
Non mi arresi  nemmeno quando venni pubblicamente ripresa in chiesa dal prete Virdis: “Farebbe bene a pregare chi invece si diletta nello scrivere per i giornali storie scostumate!” Avevo 17 anni e in mia  difesa venne  Antonio Ballero, letterato, pittore, fotografo e mio caro amico  che chiese al prete di ritrattare ma probabilmente i due non trovarono  un accordo dato che vennero alle mani.

-E Grazia la moderna?
Sai agli inizi del 900 fui  esempio di modernità, ma a modo mio. Non lottavo  per le donne, ma  per me  stessa,  per affrancarmi  dalle catene che mi  vincolavano, per la gloria che desideravo,  per il potere e la scrittura, perché ero sicura che tutto ciò sarebbe diventato un passi  per aprire tutte queste porte.
-Come hai ottenuto l'emancipazione?
La mia personalissima emancipazione la ottenni in  una maniera del tutto insolita: non guardai, come facevano  le altre donne rivoluzionarie di inizio novecento al futuro, ma si rivolsi  al vecchio, al passato, alla tradizione dalla quale fuggivo  ma della quale non potevo  far  a meno,  come un sicuro contenitore che mi consentisse  di vivere in libertà tutta la sua modernità. D’altronde non mi sono mai stancata di descrivere la società sarda nella quale ho lungamente vissuto, come patriarcale. Eppure nei miei  romanzi (esattamente come nella mia  vita) gli uomini  hanno vissuto in balia delle vicende, e le figure forti, immutabili, glaciali sono tutte donne.

- E la Grazia scrittrice?
Il contrasto divenne assai stridente anche nella mia  vita romana: quando mio  marito rientrava in casa   lo chiamavo, con i figli,  “il padrone” eppure Palmiro è stato piuttosto il mio segretario e factotum: ha studiato lingue straniere per curare i contatti con gli editori di tutta Europa, ed è stato  lui a inaugurare i rapporti con i personaggi di un certo rilievo per mio  conto. Di questo mio  strano menage familiare Pirandello (che non  mi apprezzò mai !!) ne parlò ironicamente nel suo “Il marito” una parodia che ebbe pochissimo successo e che l’autore rivide prima di morire. Io, Grazia Deledda, ero temibile, e nei miei  anni romani ero temuta, eppure non mi stancai mai di descrivermi ed immaginarmi come una devota moglie sottomessa al marito, il padrone. Ma è stato l’unico modo forse  per vivere la mia vita di donna moderna, pur non distaccandomi dalla tradizione nuorese nella quale ero cresciuta, che rifuggii partendo  per Roma per vivere la mia  vita di scrittrice, e della quale non potevo  fare a meno.
- Come iniziasti?
Quando presi  la penna in mano per la prima volta lo feci per raccontare di quei personaggi che avevo  conosciuto all’interno della mia cucina: io  bambina seduta davanti al fuoco domestico conoscevo  la Sardegna e molti di quelli che diventeranno i personaggi dei miei romanzi. D’altronde non era raro che mio  padre ospitasse amici provenienti dai paesi vicini e questi con i propri racconti e con le proprie vicende seminarono nella mia fantasia mille e una storia. Poi c’era mio fratello Andrea  che mi  raccontava  delle sue avventure e mi portava fra pastori e amici, e i servi che lavoravano i  nostri terreni. C’era Proto con le sue storie di santi, e il servo “ amico dei latitanti e anche dei banditi” e di questi raccontava con gran consenso da parte di noi bambini. Quando vidi  pubblicata nella rivista “L’ultima moda” la mia  prima novella, 1887, “Sangue Sardo”, due colonne di prosa ingenuamente dialettale (la lingua che nella mia  famiglia e nel mio  paese veniva utilizzata era il lugodorese, un dialetto sardo, molto vicino al latino) pubblicate solo grazie alla mia intraprendenza di giovanissima scrittrice, mi resi conto che avevo raggiunto autonomia e  una certa audacia. Pur se il fatto  destò all’interno delle mura domestiche una “condanna senza appello”,  eppure  non abbandonai  il mio  sogno e l’anno successivo inviai alla rivista il mio primo romanzo. Ciò  scatenò  “un rogo di malignità, di supposizioni scandalose, di profezie libertine”.Fui  accusata dai miei  concittadini di aver macchiato l’onore della Sardegna nel ritrarre i costumi antichi e rustici, la miseria e la violenza. Ne fui profondamente addolorata perché ho amato  molto la mia terra natale.
Ma è  stato il romanzo Canne al Vento , nella  piena maturità della mia vita, che offrì lo  spunto alla mia arte di scrittrice, particolarmente in Italia. Il romanzo rifletteva le mie migliori qualità di scrittrice;  “Canne al Vento" 1913, lo scrissi con semplicità di disegno e  analisi psicologica.
  
Ma la trama del mio romanzo te la voglio raccontare,  cara intervistatrice!! : una nobile famiglia, i Pintor padre, madre, quattro figlie - che vive in un villaggio- è caduta in miseria; vita triste, desolata e monotona dei protagonisti e poi una disgrazia e un delitto. Le figlie hanno ereditato il podere del padre Don Zame. Il podere con la casa rovinata offre  poco sostentamento e in seguito devono far fronte alla miseria che diviene enorme ogni giorno di più. Efix è il servo delle figlie Pintor che non possono più pagarlo ma lui continua a servirle e a essere loro utile, anche quando Lia, la terza delle sorelle, non riuscendo a sopportare le condizioni imposte dal prepotente padre Don Zame che si comporta in modo superbo e crudele verso le donne, decide di abbandonare la casa paterna e fugge dall’isola verso il continente, dove si sposa e ha un figlio - Giacinto. Efix diviene complice nella fuga, con risultati tragici alla fine. La fuga fa impazzire il padre, le sorelle la disonorano, e per molto tempo non si sa più nulla di lei. Il padre che aveva inseguito la figlia, muore in modo misterioso Il romanzo, che è basato sul personaggio di Efix, è molto avvincente.
Rivedo molti dei personaggi, le sorelle, Ruth, Ester, Naomi, Don Pedru che sposerà quest’ultima, anche Giacinto, il figlio di Lia ora cresciuto ma spregiudicato e “…tutto infarinato, e con tutto quel bianco addosso sembra purificato perché finalmente redento dal lavoro e dalla bontà”. Ma è soprattutto la figura di Efix che mi appare, dapprima vacillante e poi che scorre come un fiume nella mia mente. È Efix, il servitore di tutti, che non chiede niente a nessuno e nulla per se stesso. È Efix, il buono, l’onesto e caro servo che con la propria virtù mi ha commosso. Ma la vita di Efix si svolge sempre più tragicamente. Dopo la fuga di Lia il padre, Don Zame, disperato, aveva assalito il servo che per difendersi commette l’omicidio sul ponte fuori del paese. 
È da  questo orribile delitto, che si ha la  decadenza della famiglia Pintor. Efix ha rimorso di aver ucciso. La sua sofferenza è di espiare il suo peccato e di farlo in silenzio, la sua coscienza non gli permette altro. Il povero Efix soffre perché ha osato amare, un amore non giusto per la sua padrona, perché la donna era superiore alla sua condizione. Si preoccupa  e fa di tutto per aiutare le “dame” Pintor. Poveretto, si allontana, va peregrinando fra i poveri e i ciechi ma poi, pieno di rimorsi, torna a servire perché servire, e anche proteggere, è il suo dovere. Il delitto che lui ha commesso deve essere espiato ed egli accetta il suo destino con rassegnazione.
 All’avvicinarsi della sua morte e allontanato da tutti, Efix ascolta il linguaggio delle canne che hanno qualcosa di umano. Nel loro mormorio ci sono parole e ammonimenti. Si ritrova solo, ma circondato da un muro che lo serra. Lui doveva andarsene per lasciar libere le “dame”, e perché Naomi potesse sposarsi con Don Pedru. Efix è trasformato, e c’è festa nuziale in paese; la fisarmonica suona note di gioia in onore degli sposi e porterà fortuna alle sorelle. Di questo il morente Efix si rallegra, ora può morire in pace. Ed è così che si chiude la pagina di Efix: “Chiuse gli occhi e si tirò il panno sulla testa. Ed ecco…le canne mormoravano… gli pareva di addormentarsi… ma  d’improvviso sussultò, ebbe l’impressione di precipitare… Era caduto di là, nella valle della morte"
 
- Ed i tuoi rapporti con il dialetto?
Nelle mie opere il lettore  ha potuto  incontrare la vera letteratura, quella che è sapere sulla vita, quella che insegna come ci si comporta  perché ha trasmesso  il millenario sapere antropologico-religioso di una comunità.

E l'intervistatrice è d'accordo con la stessa critica del Prof Tanda (autore di una raccolta di saggi Dal mito dell’isola all’isola del mito. Deledda e dintorni, Bulzoni, 1992) quando ha sottolineato la modernità della Deledda, scrittrice che in pieno Positivismo (quando la Sardegna era considerata la terra della “razza delinquente”), confrontandosi con il tema del male (Dostoevskij), ha evidenziato la responsabilità individuale, ha posto l’accento sulla libertà di scelta. Grazie a questa autrice, che  ha trattato  le moderne problematiche collegate alla funzione dell’interiorità psicologica, al sentimento della fragilità dell’uomo, la Sardegna ha acquistato  un suo preciso spazio “come la Sicilia di Pirandello, la Trieste di Svevo".Ringrazio idealmente Grazia Deledda per avermi permesso  LA RISCOPERTA DELLA SUA  FIGURA

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