Nel pubblico dei seguaci irriducibili delle produzioni horror indipendenti, l’udinese classe 1968 Lorenzo Bianchini, autore del poco visto noir tarantiniano Film sporco (2005), è conosciuto soprattutto per l’apprezzabilissimo esordio Lidrîs quadrade di trê-Radice quadrata di tre (2001), ambientato nottetempo nei sotterranei di un istituto superiore, e per la sua opera seconda Custodes bestiae (2004), riguardante un giornalista alle prese con una setta di adoratori di Satana.
Il suo quarto lungometraggio, finanziato addirittura da un produttore portoghese ed interpretato da Giovanni Visentin e Sofia Marques, si basa sulla figura di un restauratore incaricato di restituire all’antico splendore gli affreschi di una villa, il cui custode si è tolto recentemente la vita.
Quindi, quello che vuole dichiaratamente essere un omaggio a La casa dalle finestre che ridono (1976) di Pupi Avati, da sempre punto di riferimento del filmmaker, non tarda a manifestare una certa influenza da parte del cinema di Dario Argento, con Profondo rosso (1975) in prima fila.
Del resto, man mano che il protagonista si rende conto del fatto che tutte le figure dei dipinti presenti nella casa hanno gli occhi cancellati, è impossibile non pensare al capolavoro dell’italian thrilling interpretato da David Hemmings e Daria Nicolodi, soprattutto dal momento in cui vengono scovati disegni e scritte dietro l’intonaco dei muri.
Ed anche l’uso della camera, che s’insinua a mo’ di soggettiva nelle stanze e nei lunghi corridoi dell’abitazione, non può fare a meno di richiamare alla memoria lo stile dell’autore di Suspiria (1977); mentre a regnare è una silenziosa, avvolgente atmosfera che riporta in maniera efficace a quella tipica delle nostre pellicole di mistero degli anni Sessanta e Settanta.
Peccato che, sebbene i lenti ritmi di narrazione risultino in un primo momento funzionali nel condurre progressivamente lo spettatore all’interno del fitto intrigo, oltretutto impreziosito dalla buona prova del cast, finiscano ad un certo punto per rendere eccessivamente monotono l’insieme.
Con la risultante di circa 73 minuti di visione che, in fin dei conti, rischiano di apparire soltanto nelle vesti di un non esaltante rifacimento dell’ottimo Danza macabra (1964) di Antonio Margheriti.
Francesco Lomuscio