Attraverso i ponti con le narici aperte per prendermi tutto l’odore di mare, misto a puzza di mare fermo, misto a cipolle a rosolare.
Attraverso la laguna con la faccia esposta a prendermi in faccia tutto il vento che c’è di domenica mattina, Santa Maria della Salute in silhouette, la Giudecca riflessa sull’acqua.
Attraverso l’ultimo pezzo di Arsenale col buio già profondo tagliando la foschia a metà con il corpo e con l’umidità che si posa sui capelli e mi entra nella pelle attraverso i vestiti.
E c’è questo momento preciso, tra i cantieri navali dell’Arsenale e il padiglione Italia, in cui mi rendo conto con certezza che la Biennale e tutti i suoi stimoli sono solo un pretesto per perdermi ogni volta a Venezia, per scoprire il Ghetto e i suoi campi di calcio stretti tra i palazzi mangiati dall’umido, per riperdermi a Castello e ritrovarmi sempre e comunque in quel campo anche quando sembrava perso, per guardare il mare aperto da una calle che finisce sull’acqua, per bere vino al pomeriggio in mezzo ai veneziani rumorosi.
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