36. Riflessi

Creato il 19 ottobre 2011 da Fabry2010

Pubblicato da fabrizio centofanti su ottobre 19, 2011

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Tutti capirono che intorno alla questione degli autobus si giocava la battaglia più importante.
Le immagini violente sono monotone, come quelle pornografiche.
Sull’acqua, i riflessi hanno forme inafferrabili; cerchi d’inseguirle, di fissare un simbolo plausibile: un cane che insegue la preda con la lingua penzoloni, un serpente che striscia in un canale, un fumo che si alza all’improvviso dall’ombra di una città senza parole.
Non si poteva più tornare indietro, anche se i razzisti cercarono di compattarsi e di mostrare la faccia più cattiva, di arginare il movimento prima che fosse troppo tardi.
Hai mai provato cosa voglia dire un poliziotto che si avvicina e ti spara addosso una, due volte?
Guardi lo specchio azzurro e all’improvviso emergono i ricordi; comprendi che il futuro nasce da una memoria incustodita che ha trovato il modo di eludere i divieti.
I tutori dell’ordine pubblico si tenevano sul vago, consapevoli dell’onda irrefrenabile, ma anche del desiderio dei bianchi di non fare troppe concessioni, di non dare la stura alla marea montante.
Il primo colpo ti fa crollare sul sedile accanto, ma non sono soddisfatti: sparano ancora, sapendo che non puoi difenderti, che sei l’umanità assuefatta all’ingiustizia, abituata a subire quello che arriva dal padrone.
I ricordi galleggiano, assecondano il moto delle onde, non li convincerai a tornare a fondo, perché sanno di avere dalla loro un progetto interrotto solo per pigrizia o per paura.
Il braccio di ferro con la compagnia pendeva dalla nostra parte: le perdite aumentavano giorno dopo giorno, non si poteva più nascondere il fallimento che rischiava di spazzarla via.
Mi tirano fuori dall’auto e mi sdraiano per terra, la maglietta chiara sembra splendere di luce propria, ma è l’effetto del contrasto con la pelle nera.
Qual è il confine tra la spiaggia umida e la schiuma? Ami più la danza languida della risacca o l’accoglienza così femminile della sabbia?
Fecero di tutto per difendere le loro posizioni, il diritto di cacciarci e insultarci esigendo il silenzio e la rassegnazione.
Ti accerchiano in cinque, con i caschi bianchi e i manganelli, cominciano a picchiare senza preavvisarti: perché sei sempre carne da macello? Anche un animale incute più rispetto.
Passerei ore a guardare la schiuma trattenuta tra i sassi e le conchiglie, mentre l’acqua si ritira per uno o due secondi e ritorna, ritorna, come la memoria, una forza che cresce dal di dentro e ti dice che sei ancora cittadino di un luogo che chiamano realtà, essere, vita.
Quando la Corte suprema pronunciò la sua parola, per un attimo restammo sospesi sopra il nulla, non potevamo credere che fosse vero.
Ti sbattono al muro e ti bastonano, al ritmo di una musica infernale.
C’è qualcosa che unisce il va e vieni dell’acqua e il grido dei gabbiani che circondano le torri? Qual è il collegamento tra i pensieri e il riflesso enigmatico della città, della colonna di fumo, della barca che sembra, in lontananza, un libro caduto dalle mani del lettore, un romanzo destinato a confondersi con l’umido del lago, la carezza viscida delle alghe verdi-azzurre?


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