38. Piazze

Creato il 13 marzo 2011 da Fabry2010

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Negli occhi di Marco le due facciate si confondono: a uno sguardo sommario, le differenze sfumano nell’omogeneità del bianco, dei finestroni e delle forme rettilinee e regolari; solo mettendo a fuoco si nota la semplicità raffinata del rinascimento veneziano e il classicismo barocco dell’edificio della Roma clementina. Ormai sa bene che a guidarlo nella vita restano i ricordi, l’alternarsi di un presente inaccettabile e la nostalgia struggente del passato. Si concentra sulla scenografia della fontana, prova ad arrendersi alle forme arrotondate per smussare le contraddizioni che lo lacerano, le disarmonie che sente stridere in se stesso; ma l’anima del monumento gli restituisce i conflitti accumulati nella sua progettazione: la rabbia dei duchi di Poli, la testardaggine di Clemente XII, i litigi continui tra il Salvi e il Maini, fino al vaso di travertino che lo scultore inserì per oscurare il barbiere impertinente della bottega dirimpetto. Marco comprende che il racconto può nascere dovunque, perfino dal marmo di un presente irrigidito, dall’estraneità di una vita trapiantata, incapace di un segno di conforto, del calore di un abbraccio, la carezza del tempo che si china in una stanza appesa al terzo piano dei rimpianti. Forse per questo la memoria lo trascina altrove, a incrociare la lancetta d’oro dell’orologio della torre, in piazza San Marco, il diario del succedersi dei giorni, delle ore, le fasi della luna, perfino i segni zodiacali, un tempo diverso da quello che ora lo imprigiona, pronto ad aprirsi, a diventare musica, un carillon che mette in scena figure leggendarie, tre re d’oriente che portano in dono una vita finalmente intera, un ritrovarsi dopo tante fughe, la scoperta che il racconto deve ancora cominciare e nasce sempre dal racconto stesso, dal trapasso impercettibile da una fontana clementina alla torre della piazza veneziana, dalla campana a morto al rintocco capace di far nascere di nuovo, di battere sul bronzo come il Moro barbuto e quello imberbe, simboli di un’età sospesa sopra il nulla perché regala all’uomo la libertà di rimanere giovane – come il Dio al di fuori di ogni tempo -, di raccontare, oppure diventare muto, inaridito, come il barbiere impertinente della bottega dirimpetto.



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