Sono partito per Uppsala 40 giorni fa. C’è qualcosa di biblico in questa cosa.
E’ troppo presto per cominciare a fare bilanci, pure per me, ma qualcosa da dire che non siano party, freddo e bionde ormai ce l’ho.
Se dovessi dire una parola che mi ha fatto riflettere in questo mese, direi aspettative. E l’uso della parola non è certo in senso positivo..
Da quando sono arrivato, mi sono reso conto che tutte le mie difficoltà iniziali sono derivate da aspettative (o viaggi mentali, castelli in aria, chiamatele come vi pare) che mi ero fatto prima di partire.
E che ovviamente sono state disattese per la quasi totalità.
In meglio e in peggio, ovviamente, ma non posso dire che le cose si siano sviluppate nel modo che mi aspettavo.
Partendo dai mille problemi del viaggio di andata, l’arrivo praticamente di notte in una stazione fredda e buia, lo studentato fatiscente, senza nessuno che avesse voglia di scambiare due parole. E un corridoio di gente chiusa nelle loro stanze, a vivere separatamente le proprie vite.
Poi ti rendi conto che non è per nulla facile sciogliersi con l’inglese, e che praticamente tutti lo parlano meglio di te. E le lezioni non sono banali, ti danno gli homework ogni settimana, dando per scontato delle cose che magari tu non hai mai studiato. Senza contare tutte le cagate modulistiche (e un grazie all’Unibo e alla sua burocrazia sovietica) che ti fanno perdere delle ore e a tratti sembrano irrisolvibili.
E nemmeno le amicizie e le conoscenze sono una passeggiata: è complicato entrare in confidenza con persone che hanno una sensibilità e un vissuto così diversi dai tuoi, con cui per di più fai fatica a comunicare come vorresti perché non ti vengono le frasi giuste da dire.
Il punto è che queste cose non sono per nulla strane: probabilmente sono la norma per chiunque va all’estero (anche se i racconti solitamente vengono fatti alla fine, quando tutti i problemi iniziali sono belli che dimenticati) ed è anche giusto che sia così. Sarebbe anzi strano che uno non trovasse la minima difficoltà ad ambientarsi.
Il problema è che io ero partito con questa specie di film in testa, in cui arrivavo in questo posto da sogno, dove tutto funzionava perfettamente, con una camera immacolata in uno studentato superaccessoriato, il mio inglese sarebbe diventato fluente dopo pochi giorni, la gente avrebbe fatto a pugni per voler chiacchierare con me e diventarmi amica, avrei preso il massimo dei voti (secondo un ragionamento del tipo: “gli italiani non sanno un cazzo, ma sono molto creativi e adattabili e quindi ci saltano sempre fuori in modo brillante”). E poi un corridoio di gente simpaticissima, con cui cenare tutte le sere e poi uscire, tante culture diverse così perfettamente amalgamate..
Non chiedetemi perché.
Forse è stato una specie di meccanismo di difesa: ho somatizzato la tensione per questa partenza immaginandomi che tutto sarebbe stato perfetto, come me lo immaginavo. Perché se mi fossi permesso di pensare a tutte le difficoltà avrei avuto l’ansia per le settimane (o i mesi..) precedenti.
Forse in questo modo mi sono evitato l’angoscia prima, ma di certo mi sono reso difficili le cose dopo, quando ho visto che tutto era molto diverso e più sfaccettato.
Se si potesse, la cosa migliore sarebbe partire con la mente totalmente vuota, senza pregiudizi né positivi né negativi. Così da assorbire tutto quello che si incontra come una spugna, senza dover filtrare attraverso le proprie immagini precostruite.
Ma ovviamente è impossibile, quindi amen.
Ma non è un caso che le cose abbiano cominciato a girare nel modo giusto quando sono riuscito ad entrare nell’ottica di dover prendere quello che c’era senza pretendere che fosse come volevo io.
Vivi quello che c’è, con meno testa e più cuore, ed è tutto molto più semplice (senza contare che l’effetto collaterale di avere un inizio traumatico è che le cose non possono che migliorare).
Allora diventa più facile conoscere piano piano le persone, senza aspettarsi che la confidenza arrivi dopo poche serate (ma con chi mai succede, anche a casa propria?) o che sia possibile ottenere buoni risultati universitari senza troppi sforzi.
Vedi l’inglese che, dopo un mese (un mese!) stentato, comincia finalmente a migliorare visibilmente, e le frasi arrivano alle labbra più rapidamente e riesci a farti capire quasi su tutto (pur con un bel po’ di errori).
Capisci che le persone del tuo corridoio forse hanno solo bisogno di un po’ di tempo per prendere le misure, e dopo qualche chiacchierata casuale in cucina cominci a salutarti più calorosamente quando ti incontri.
Cominci a percepire che il tuo studentato, anche se è un orribile edificio postbellico, ha un suo fascino decadente e spensierato.
E quando entri in camera, vedi le pareti semivuote, i gatti di polvere per terra e le bottiglie di alcolici sulla libreria.. ti senti proprio a casa tua. Anche se sei nell’ultima stanza dell’ultimo corridoio dell’ultimo palazzo di questo studentato fatiscente, quella è la TUA casa.
E ci si sta da dio.
Di tempo da passare qui ne ho ancora parecchio, chissà cosa dirò fra altri 40 giorni. La mia vita ad Uppsala è talmente migliorata nell’ultimo mese, quasi di giorno in giorno, che non so come possa continuare così fino a giugno.
Speriamo.
Per ora mi basta essere arrivato al punto da potermi dire felice di essere qui.
Ed è già molto bello.