5. Dove comincia

Creato il 17 settembre 2011 da Fabry2010

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Che mio zio mi portasse in seminario fu un fatto ritenuto prevedibile, se non ineluttabile. Dalle nostre parti, la religione è una seconda pelle.
Al di là della parete si discute, si decidono le sorti, viene in mente un manipolo di cardinali investiti dal vento, gli zucchetti che volano, tonache e mantelle agitate come bandiere di lotta popolare.
Il collegio è una groviera sotto le montagne, ci aspettavamo che un gigante lo venisse a divorare e si sedesse soddisfatto a digerire e godersi il panorama.
Di lui si pensava fosse un buon curato che sapeva destreggiarsi con i capi barbuti delle altre confessioni, un uomo inoffensivo, perché il principio generale è non dare fastidio, non toccare certe leve, lasciare tutto esattamente come prima.
La pagella fu un disastro: quattro in italiano e geografia, sette in religione, quattro in aritmetica con la nota a margine che in realtà si trattava più di un tre.
Aveva affrontato il generale ostile all’altro vescovo, reo di aver assecondato il trasferimento della capitale ad opera dei conservatori schierati col nemico.
Una cosa non mi andava giù: che mi avessero accusato di un furto di mele con cui non avevo nulla a che spartire; di scherzi ne facevo tanti, ma rubare mai, è una questione di principio, cerco di coniugare il verbo dare – nonostante la pagella -, come mi hanno insegnato.
Perché fu scelto proprio lui? Per evitare problemi, anche stavolta? Qualche scandalo lo aveva dato, sembrava di sinistra, certe volte: è peggio che bestemmiare, nella Chiesa, anche se Cristo sta sempre con i poveri.
Perfino i Promessi Sposi erano stati censurati, si poteva disporre di una versione riveduta; e allora si leggeva di nascosto, si cercava di capire cosa ci fosse di scottante, di proibito, si giravano le pagine come si svolta dietro l’angolo scuro della strada, assicurandosi di non essere seguiti.
La scomunica del comunismo finiva col travolgere anche le istanze più sincere, l’aspirazione alla fraternità: quanti preti sarebbero stati criminalizzati dalle gerarchie per aver parlato di cose scritte nel vangelo.
Le nostre passeggiate migliori non erano quelle intorno al seminario, ma le sortite immaginarie nel convento a Pescarenico o nel castello della guarnigione spagnola in riva al lago.
Se tornasse Gesù, cosa direbbe, cosa farebbe? Magari potessimo vederlo alle prese con la Curia, o con la Knesset.
Ci si inventava i tratti di Lucia, della monaca di Monza: ma forse il peccato era qui, nella nostra fantasia? Forse che per credere si debba rinunciare a essere se stessi, negare di avere un cuore o un corpo che freme?
Oltre la parete non si capiva affatto se soffiasse lo Spirito o i sussurri degli uomini dalle vesti rosse, i gesti, le occhiate eloquenti, se non addirittura i nomi più graditi.
O forse il peccato era parteggiare per la folla che tumultuava ai forni di Milano o pensare, solo per un attimo, che l’Innominato fosse più attraente del cardinale Borromeo.
Cosa fece cadere la scelta su di lui, una luce dall’alto o il porporato francese col suo gruppo, a cui serviva un canale favorevole con la Santa Sede?
Poi mi chiamarono al servizio militare: fu lì che scoprii la durezza dei gesti, la volgarità: dove sono capitato, bisogna imparare questo per poter stare al mondo, bisogna vergognarsi di provare tenerezza, d’innamorarsi di un tramonto?
Come finirà? Chi vincerà? E qual è, poi, la vittoria? Dove comincia, invece, il fallimento?



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