Trascorsi alcuni giorni, il presbyter Fabricius diede mandato agli economi dello xenodochio di cercare un magister grammatice per istituire una scuola in San Pietro, perché, diceva, ai poveri non sia tolta l’occasione di migliorarsi. Gli economi cercarono a lungo e e fatica, perché già alcune scuole di grammatica e retorica erano aperte in Cattedrale e presso le case di alcuni maestri, e pareva che nessuno fosse interessato a prestare opera in cambio di un piatto caldo e ospitalità per la notte. Quando gli economi annunciarono accordi con tre artium periti per stabilire la scelta definitiva, Fabricius comunicò che la scelta era oramai stata da lui fatta, e il clericus Iosephus, già magister artium nello studium in Patavia, entrò nello xenodochio. Né costui si limitò a insegnare a coloro che mai prima di allora avevano preso in mano un calamo invece di una zappa, un bastone di corniolo, un martello.
Attorno a Fabricius e a Iosephus infatti presero a frequentare le aule dello xenodochio alcuni uomini donne del quartiere, e iniziarono a spendere le loro giornate in studio e discussioni, tanto che la schola grammatice pareva giusto essere una trascurabile occupazione di Iosephus, mentre gran parte del suo tempo era dedicato ai conversari con il piccolo gruppo di soci. Fabricius, homo bone conversacionis et honestatis, pareva sempre presente, anche quando gli obblighi del suo ministero lo portavano in campagna e in altre parti della città. Egli aveva rivelato ai soci, e solo a loro, che vera e autentica auctoritas non è il volume delle pagine dell’opera di Sanctus Hieronymus, il quale, diceva Fabricius, benché santo aveva imparato il greco tardi e male, a tacer dell’ebraico antico. La vera scrittura, diceva, può e deve essere commentata e cambiata, cioè migliorata. La vera auctoritas, sosteneva Fabricius, è la scrittura vivente, quella che si pratica ogni giorno nella carità. I fedeli sono scrittura vivente. Così Fabricius alla parabola del testo sostituiva la sua narrazione, e quella del gruppo riunito attorno a lui e a Iosephus. Non ometteva però mai di raccomandare ai soci grande prudenza. Se non segreti, diceva, che quei suoi insegnamenti fossero almeno riservati al gruppo dello xenodochio, ai suoi poeti, come diceva. Non c’era necessità che scandala eveniant proprio su ogni faccenda, tanto meno sulle conversazioni e insegnamenti intesi solo da chi aveva orecchie per intendere.
La gente del borgo prese così a chiamare il gruppo dello xenodochio come i poeti, o i poeti dello spirito, o gli spirituali della poesia, e davvero il popolo in città non sapeva se considerare i poetici dello spirito (o spirituali della poesia) una schola, o una congregazione religiosa, o una confraternità, o piuttosto come una società casuale e informe come quelle che si formano ogni sera nelle taverne lungo il fiume, infoltite dallo scorrere del vino dei colli. E di taverne era un gran frequentatore uno dei primi poeti dello spirito, quel Franziscus Krustencoma, fornaio todesco, che tanto era bravo a sfornare il pane fino all’ora terza, quanto a consumare in gran quantità il vino dei colli dopo l’ora vespertina, e a ricercare in quei luoghi di abbruttimento le lusinghe della carne, a lui non ignote (ma, ripeteva sempre con una lubrica smorfia, la carne deve essere frolla al punto giusto). Egli sosteneva che l’anima del poeta non risiede nel cuore, non nel fegato, nemmeno nei visceri, ma ancora più giù, e componeva sonetti licenziosi dedicati alle nobildonne della città, non per mezzo di senhal e cortese discrezione, ma indicando apertis verbis il nome e il casato. Per questo da tutti in civitate Civetiense era ritenuto un poco pazzo, ma in fondo innocuo. Le nobildonne erano di molto divertite. I mariti assai meno.
Alla veemenza delle declamazioni di Krustencoma si opponeva la discrezione di Tête Rouge, forse un lontano relativo dell’Oxoniense Grossa Testa, il quale era solito raccontare brevi novelle che racchiudevano un insegnamento. Nessuno però, nemmeno Fabricius, comprendeva davvero quale fosse l’insegnamento racchiuso così strettamente e forse volutamente celato nelle parole di Tête Rouge. Così ognuno dei soci dava a intendere di aver ben compreso, e più altro non dicevano. La brevità del testo, per i poetici spirituali (o spiritati dalla poesia) garantiva e richiedeva ellittica esegesi. Spesso Tête Rouge era cercato nello xenodochio. «Dicci un sonetto, una ballata, una pistola sotto forma di serventese, una bella canzone!». La sua risposta era sempre la stessa: «No!». E intendeva con ciò piena ars poetica, perché questa umile particella sonora, questo flatus vocis, è in sé un’implicatio mundi, una divina e suprema sintesi della creazione, il segnale per alcuni dell’epistrofetico ritorno.
(continua…)