Finisce qui l’estenuante carrellata di uscite discografiche medio-buone (e qualche ciofeca indigeribile) che ha avuto come filo conduttore quel numerello a noi tanto caro. Per andare a recuperare le prime due cliccate qui & qui. Ci si ammucchia nuovamente, dunque, nel modo più ignorante possibile con i Goatmoon, perché sì.
Delizioso crogiolo di antisemitismo, razzismo, nazionalsocialismo, satanismo e chi più ne ha più ne metta, i finlandesi Goatmoon, nella persona del one man band Jaakko Lähde, ci allietano la giornata con un quinto album. Diciamo più precisamente che è dal 2011 che il tizio non se ne esce con un disco completamente composto di inediti. Quest’ultimo come il precedente, infatti, è una specie di compilation di vecchi pezzi, provenienti da demo, album e split con svariati gruppi altrettanto nazisti quanto lui, riarrangiati e mescolati insieme a brani nuovi. Ne esce un delirante zuppone di generi misti, dal raw black metal degli esordi, al viking, a burzumiane rimembranze, al folk, che rende il tutto abbastanza ingiudicabile. Ma è proprio in quest’ultima veste che lo preferisco. Infatti le prime due inedite title-track di questo album spaccano non poco: folk black’n’roll cazzarone e divertente, con tanto di scacciapensieri, completamente decontestualizzante. In generale mi sta piacendo. Tra i brani più datati c’è anche qualche altra chicca, tipo Race of Heroes, il cui simpatico testo fa più o meno così: Attenzione subumani! Non siete niente rispetto a noi! Siamo la razza superiore, la razza di eroi. Deliri di arianesimo a parte, se da tutta la carriera dei Goatmoon mettiamo insieme una decina di pezzi ben selezionati, ne esce fuori un best of pure molto fico. Hail Hydra.
Il suicidio in Giappone è una cosa seria e per i giapponesi uno dei luoghi d’elezione in cui andare a farla finita è proprio la foresta di Aokigahara, sita ai piedi del monte Fuji. Pare che in mezzo a quegli alberi, tra seppuku, impiccagioni e avvelenamenti, si verifichino centinaia di suicidi ogni anno e che la tendenza sia cresciuta esponenzialmente dopo la pubblicazione, negli anni ’60, del libro di Seichō Matsumoto, in cui i protagonisti, malati d’amore, decidevano di passare a miglior vita proprio in quell’ameno posto. Allegria. Gli Harakiri For The Sky, giustamente, hanno pensato bene di trarne ispirazione per un secondo disco. Il duo austriaco, in questo mirabile intento, si avvale anche della collaborazione al microfono di membri di Agrypnie, Heretoir e Whiskey Ritual (Cristiano Rastelli canta su 69 Dead Birds for Utøya, che è uno dei brani migliori). Per il resto non c’è molto da dire, Aokigahara è lungo quasi il doppio e, forse per questo, un pelino meno riuscito dell’esordio; sull’edizione vinilica c’è una cover di Mad World, che fa strano ma funziona; la quinta traccia, Parting, scopiazza l’inizio di pianoforte di If I Could Fly, ma funziona pure quella. Vista la complessa psicologia dei due, sono seriamente preoccupato che non arriveranno a mangiare il panettone.
Strani questi belgi. Ogni volta si presentano con un singolo che pare foriero di belle vibrazioni, per poi deludermi, anzi, annoiarmi di fronte al fatto compiuto. E’ successo col precedente Ritu, è successo nuovamente con Eldritch. Penso che non accadrà più, visto che ho di meglio da fare nella vita. Il resto del disco è un ricordo del periodo più sinfonico dei Dimmu Borgir, quindi, davvero poco interessante proprio perché già noto, trito e sorpassato. Qui non c’è veramente nient’altro da dire.
Dice che veniva a Roma e poi ci dà buca. Andreas Hedlund mandò in sua vece un tale Athera, riccioluto cantante fuori contesto, per sostituirlo coi Borknagar. Questa cosa me la sono talmente legata al dito che ho ignorato il fatto che fosse uscito Naturbål. La prossima volta ti stai più accorto Andreas, che qui nel terzomondo ci salta la mosca al naso in un attimo. Comunque state tranquilli, non vi siete persi niente, neanche stavolta (è da Jordplus che Vintersorg non ci fa ascoltare qualcosa di degno del suo nome). La formula è sempre la stessa e non ci sarebbe nulla di nuovo da aggiungere se non ribadire che il buon Andreas risulta sempre più autocelebrativo. Non sarebbe meglio rimettere in piedi gli Otyg come si era detto?
Non ne avevamo mai parlato prima ma i tedeschi Downfall of Gaia rientrano a pieno diritto tra quei pochi gruppi di post black metal (tipo i suddetti Harakiri, Wood of Desolation, Nontinuum e veramente poco altro) che riescono ancora a sfornare dischi credibili nell’alveo di quel particolare sottogenere. E credibili erano i primi due. Oggi riescono decisamente a fare un salto in avanti. Anche qui, un album che dura un’ora secca ma che rende veramente impossibile qualsiasi calo di attenzione. Tutto, il muro di suono, lo screaming monocorde, la cadenza doom, la produzione, è funzionale a creare uno stato d’animo di angoscia e di fastidio indefinito, che fatichi poi a superare una volta esaurito l’ascolto. La caratteristica principale di Aeon è che sembra non partire mai, sembra che debba esplodere da un momento all’altro e invece non succede niente di nuovo, è vuoto e piatto e non dovrebbe essere altrimenti. In questo hanno qualcosa in comune coi Cult of Luna, sebbene, nel complesso, risultino non così disturbanti e schizofrenici. Malati, ma di una malattia diversa. Invito a tenerli presenti ora e per il futuro.
Chiudiamo in schifezza con l’uscita discografica che meglio riesce ad esprimere il concetto di declino artistico ed estetico. Il Conte è diretto in picchiata a velocità folle verso lo sputtanamento totale e verso le accoglienti e calde spiagge del mainstream, dell’intellettualismo, dell’hipsterismo e di altre orribili cose di questo tipo che tanto fanno soffrire i Manowar. Perché è chiaro che, nonostante i loro sforzi, c’è ancora tantissima gente che non vive secondo i principi del vero metallo. The Ways of Yore è l’anello di congiunzione tra l’uomo e l’immagine dell’uomo, la macchietta, il teen idol, ormai perculato a destra e manca sui siti e blog di mezzo mondo, che finisce sulle magliette indossate da rapper negri, photoshoppato nei modi più insolenti, che diventa addirittura protagonista di un fumetto che racconta le sue gesta epiche. Ed è tutto merito suo. (Charles)
Ps. A proposito, cari fratelli e sorelle del vero metal, visto che li abbiamo citati, sappiate che noi a gennaio si va vedere i Manowar in Svizzera e siamo già eccitati come dei bambini. Siete tutti invitati ad unirvi alla allegra brigata di Metal Skunk.