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6 febbraio 1971: “Ritorno alla città distrutta”

Creato il 03 febbraio 2013 da Csunicorno

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La città vecchia è morta, definitivamente e inequivocabilmente. Dopo la tragica notte di ieri, con la luce del mattino, a Tuscania è tornata la vita. Ma è una vita fittizia, transitoria, puramente biologica: la vita di chi sta spendendo le ultime energie per cercare disperatamente notizie di figli, genitori, parenti, per frugare affannosamente fra le macerie alla ricerca della conferma o della smentita di un atroce dubbio o più semplicemente nel tentativo di recuperare poche povere cose.

Ora il problema più grosso per i superstiti è una casa. Non la fame, il freddo, la sete, le ferite, i tagli alle mani provocate dal lungo e frenetico lavoro di scavo. Nessuno può più abitarci a Tuscania e infatti se ne sono andati tutti. Due sole persone su tremila hanno dormito ieri notte in casa: Marino Loreti, 40 anni, e la madre Paolina, 70 anni, paralizzata. Dalla loro abitazione al numero 24 di via Rivellino, nella parte est della città, sono usciti solo stamattina. Il pavimento ha ceduto, avvallandosi fino a formare una conca nella quale è scivolato il tavolo da pranzo apparecchiato: un piatto di patate e broccoli lessi, accuratamente coperto con una scodella, due o tre fette di pane e un fiasco di vino, la cena interrotta dal terremoto, sono ancora lì, in equilibrio. I letti sfatti sono impolverati dai calcinacci e un comodino è coperto di tegole. Sulla parete della cucina un grosso orologio pubblicitario, con le lancette inchiodate alle 19,09, segna l’ora della scossa fatale.

Per via Rivellino passa un vecchio. Si chiama Filippo Firmani, ha 77 anni. Abitava in via della Pace 14 con la moglie Cecilia, 60 anni, e tre figli: Domenico, Giovanni e Pino. È l’unico della famiglia che, dopo la fuga di ieri, sia riuscito ad entrare di nuovo in Tuscania. «Sono entrato con i forestieri e i giornalisti – dice –. È da ieri che non mangio, da ieri a mezzogiorno. Adesso vado a casa a recuperare qualche soldo e una pagnotta». Cammina ansimando, appoggiandosi ad un bastone con cui scosta i sassi più grossi che gli ostruiscono il passaggio. La sua casa è in piedi ma il soffitto è crollato fino a far toccare terra il lampadario. Un vigile del fuoco apre la porta e stabilisce che dentro è pericoloso entrare. «Ci vado io», aggiunge. Il vecchio gli indica un armadio. «Dentro lo sportello – dice – c’è un vecchio fanale di carrozza, i soldi sono dentro al fanale». Il vigile gli porta l’oggetto e Filippo Firmani lo apre. Ci sono cinque libretti del Banco di Santo Spirito e qualche banconota, in tutto più di tre milioni. «Sono i risparmi di tutta la vita, cinquant’anni di lesina», dice Firmani. «Il fanale lo volete?», gli chiede il vigile. Lui non lo guarda nemmeno, si mette in tasca i libretti e torna fuori porta dai suoi, accampati in un prato.

Più in là c’è l’ospedale dove tre dei degenti più anziani sono morti schiacciati nei loro letti. Suor Maria Donata D’Andrea, il velo bianco macchiato di sangue, al momento della scossa era in sala ricreazione, a sentire il Vangelo alla televisione. «Eravamo in ventidue – dice – e solo tre o quattro sono rimasti feriti. Le conseguenze più gravi le hanno avute quelli che erano a letto nelle corsie, tutta gente anziana e debole che non è riuscita a fuggire in tempo. Quando abbiamo sentito il boato del terremoto abbiamo pensato per un istante che si trattasse di un petardo: ieri sera si inaugurava il teatro comunale con un ballo, e in giro c’era aria di festa, di allegria».

«Poi – dice un’altra suora, Pierina Fioriti – il soffitto è crollato e la gente ha cominciato ad urlare. Abbiamo chiesto aiuto ai carabinieri, che hanno la caserma proprio qui davanti e loro ci hanno aiutato con amore, hanno fatto anche troppo. Dopo aver portato al sicuro tutti i superstiti, noi siamo rimaste all’aperto fino alle due di notte con i malati più anziani, poi ci siamo sistemate in campagna intorno al fuoco».

Davanti al teatro comunale, una delle poche costruzioni rimaste intatte, nel cui foyer sono composte le salme finora estratte dalle macerie, c’è il drammatico pellegrinaggio di quei pochi che sono riusciti ad entrare nella città presidiata da polizia e carabinieri per cercare notizie dei propri parenti. C’è una ragazza di Roma, Donatella Priori, che cerca il fidanzato Domenico Di Virginio. Ha gli occhi bagnati di lacrime: le hanno appena detto di aver visto Domenico sano e salvo in piazza. Maria Teresa Ciccioni, trentun anni non ha retto allo choc. Suo padre Pacifico e sua nonna, Serafina Ranzoni, sono salvi fuori dalla città. È lei stessa a dirlo, ma vuole entrare ugualmente a vedere i morti “per sicurezza”. Le tremano le mani, è bianca in volto e un tic le fa stringere gli occhi in continuazione. Prima dice che è di Milano, poi che abita qui. «Quando c’è stato il terremoto – racconta – ero andata a comprare la carne. Dal macellaio c’erano altri due clienti. Lo ripete cinque, sei, sette volte, sempre le stesse parole. «Dà i numeri», dicono di lei.

Un uomo, seguito da due cani da caccia, entra in un vicolo ostruito da grossi blocchi di tufo che una volta erano una piccola torre. Non vuol dire il suo nome. «Sono uno statale, abito a Roma – spiega. – Ho una casa qui, ma non voglio che si sappia. Voglio vedere che è successo per portare via quello che mi preme di più». Lo raggiunge la moglie, proprio davanti alla porta dove un vigile del fuoco sta spalando le rovine. «Nicolino, per carità, non entrare, può cadere tutto», grida la donna. Lui entra lo stesso, seguito dai due cani, ma il vigile lo rimanda in strada: «Mi spiace, non si può, è pericoloso, se lei ci rimane sotto il responsabile sono io».

In via Roma, davanti alla fontana della piazza del Duomo, un vecchio sta in piedi accanto a un mucchio di materassi e indumenti salvati da uno stabile crollato. Un gruppo di fotografi lo prende di peso e lo fa sedere sui materassi. Lui li lascia fare, li lascia scattare. È distrutto, si chiama Antonio Marcomeni, ha 68 anni e si è accampato, dopo la fuga notturna, a un paio di chilometri da Tuscania. La moglie, Angela Loreti, 65 anni paralizzata, è all’ospedale di Montefiascone. Quando i fotografi si allontanano il vecchio tira fuori dalla tasca un pezzo di pane e una salsiccia. «Sono tornato a per prendere qualche cosa da mangiare – dice. – Non mangio da due giorni, non c’è nemmeno acqua per bere. Adesso me ne torno fuori porta, poi andrò a trovare mia moglie. Non sono preoccupato per lei; lei, in ospedale, sta meglio di tutti».

Sempre in via Roma due uomini accompagnati da un militare camminano avanti e indietro scrutando nei vicoli. Sono due pastori sardi, Giovanni Cossu, 51 anni, e Luca Pittales, 26 anni, da Orune, in provincia di Nuoro. Hanno saputo del terremoto a Campoleone, nei Castelli Romani, dove erano a pascolare “le bestie”, e si sono precipitati subito qui: Cossu ha la famiglia a Tuscania da un anno, la moglie Filomena Serra e la figlia Paola di sette anni. «La casa è chiusa, la finestra è spalancata, ma sembra che dentro non ci sia nessuno – dice. – Però non sono riuscito ad entrare perché i vigili non hanno voluto. Non sappiamo a chi rivolgerci, dove andare, cosa fare». Pittales ha una bottiglia di liquore che offre al militare che è con loro. «Signor soldato, beva, lei è stato così gentile, questo le fa bene». Il soldato rifiuta:«Sono in servizio».

Non c’è tempo per piangere, qui a Tuscania. E infatti piangono in pochi. Gli altri, migliaia di persone, fanno cerchio intorno alle porte d’accesso alla città. Le forze dell’ordine li fanno entrare un po’ alla volta, accompagnati da carabinieri, soldati o vigili del fuoco, per permettere loro di recuperare qualche cosa. La sorveglianza si è fatta rigorosissima e all’uscita chi porta qualcosa fuori dalla città deve dimostrare di averla presa con diritto. Nella tarda mattinata i carabinieri hanno fermato due giovani per perquisirli. Non avevano niente, ma i controlli sono sempre più frequenti e accurati. Perché dopo la catastrofe naturale adesso un nuovo pericolo, infinitamente meno grave del terremoto ma forse anche più crudele, minaccia i superstiti di Tuscania: gli sciacalli, i delinquenti venuti qui per togliere a chi già non ha più niente quel nulla che potrebbe illuderlo di non aver perduto proprio tutto.

© Fabrizio Zampa

Articolo tratto da “Il Messaggero” di lunedì 8 febbraio 1971 - testo e foto © “Il Messaggero” – Roma

Un ringraziamento all’amico Alessandro Rovati di Milano, per averci fornito questo materiale.


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