All’inizio gli utenti erano appena 24.000, la copertura era limitata, il canone costava 15.000 lire e l’apparecchio addirittura 200.000 lire, cinque mesi di salario per un operaio. Un privilegio per pochi eletti. Il matrimonio con il calcio, fenomeno nazional-popolare per eccellenza, non fu affatto facile. I dirigenti guardavano con diffidenza al tubo catodico. Il Coni aveva raccomandato alla Figc di stipulare con l’emittente di Stato una convenzione che assicurasse la propaganda del gioco nella tutela dei diritti di tutte le società. L’esperimento della diretta di un incontro di campionato, nella stagione 1955-56, evaporò nel giro di qualche mese. Nessuno, all’inizio, poteva immaginare cosa avrebbe rappresentato la tv per il calcio, come avrebbe cambiato le abitudini dei tifosi e stravolto le dinamiche economiche dell’intero movimento. In 60 anni tutto è mutato, il romanticismo è andato dileguandosi, soppiantato dalle logiche del business. Ma la tv ha pure consentito una diffusione su larga scala di questo sport, entrato in tutte le case fino alla bulimia di oggi.
Già la Coppa del Mondo 1958 fece intuire le straordinarie potenzialità del mezzo. L’Italia non vi partecipò, eppure i bar e i ristoranti facevano a gara per accaparrarsi i clienti allettandoli con la visione delle partite. Gli abbonati sfondarono il muro del milione, il miracolo economico alimentò la corsa ai consumi. Nell’autunno del 1960 la Lega si accordò con la Rai per la trasmissione in differita di un tempo di una gara di campionato: i club chiedevano 100 milioni di lire a stagione, si chiuse per 60 milioni (800 mila euro attualizzati ai giorni nostri). I notiziari lasciavano in bianco il risultato dell’incontro che sarebbe andato in onda successivamente, i telecronisti stavano attenti a mantenere la suspense nelle azioni più concitate. Un’effetto-diretta, in attesa dello sdoganamento vero e proprio. Il calcio in tv passò attraverso altre tappe epocali – la nascita della moviola sul gol fantasma di Rivera nel derby del 22 ottobre 1967, il via a 90° minuto il 27 settembre 1970 – ma l’epicentro rimaneva lo stadio. Tra il 1960 e il 1970 le presenze in Serie A e B crebbero del 29%.
Poi arrivò Silvio Berlusconi. Mettendo sul tavolo 900.000 dollari, Canale 5 ruppe il monopolio della Rai e acquistò i diritti del Mundialito in Uruguay a cavallo tra il 1980 e il 1981. Qualche mese dopo il capo di Fininvest solleticò i club puntando alla Serie A. La Rai resistette all’offensiva sborsando 13 miliardi di lire (26 milioni di euro oggi) per la stagione 1981-82, un’enormità rispetto ai 2 miliardi e 176 milioni dell’anno prima. La popolarità del calcio non conosceva confini. Gli spalti continuavano a riempirsi e nel 1984-85 la A registrò il record di presenze allo stadio: 38.847 a partita. I ricavi al botteghino nel 1987-88 rappresentavano ancora il 59% del fatturato delle società contro il 17% dei diritti tv.
Finché la chiesa non venne dissacrata: il 29 agosto 1993 le telecamere si accomodarono a bordo campo e ripresero in diretta Lazio-Foggia. L’avvento della pay tv stravolse le antiche abitudini. Dallo stadio reale a quello virtuale. Non più biglietto, ma parabola, decoder e smart card. Il primo contratto Lega-Telepiù assicurò 44 miliardi e 800 milioni di lire (23,1 milioni di euro), con la pay per view si passò alla trasmissione di tutte le partite di campionato. Entrate boom grazie al passaggio alla contrattazione soggettiva dei diritti, nel 1999-2000: mezzo miliardo di euro. E negli anni a venire, trend in crescita continua, tra calendario-spezzatino e concorrenza tra le emittenti per il prodotto di punta della televisione a pagamento. Fino al miliardo di introiti di questi tempi, coi diritti in capo alla Lega. Ora il calcio italiano vive aggrappato alle mammelle di mamma tv, che garantisce il 59% delle risorse complessive. E oltre 9 milioni di persone seguono ogni giornata le partite in salotto, preferendolo alle tribune vecchie e inadeguate che restano spesso mezze vuote (23.740 spettatori nel girone d’andata di A). Ma non è colpa della tv. È solo che il mondo si è evoluto. E ci si è fatti cogliere impreparati.
Marco Iariaper "La Gazzetta dello Sport"