64. Festival di Berlino: considerazioni all’indomani di un Festival

Creato il 19 febbraio 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

All’indomani di un festival ecco che arrivano pronti i bilanci di ognuno sulla selezione delle pellicole, sulla scelta della categoria per ogni film e soprattutto sulla nomina dei vincitori, momento quest’ultimo non privo di perplessità e bersagliato dalle consuete critiche. L’edizione passata ha visto il trionfo della cinematografia italiana, a dire il vero di uno dei pilastri della nostra cinematografia, ossia due registi che insieme diventano una creatura quasi bicentenaria. Se nel 2013 è stata l’Italia dei fratelli Taviani con Cesare deve morire ad avere il suo momento di gloria, il 2014 ha voluto aprire una finestra sull’Oriente assegnando l’Orso d’Oro a Bai rin Yan Huo (Black Coal, Thin Ice) di Diao Ynan, un noir dove gli ingredienti del genere abbandonano i luoghi consueti per stabilirsi in Cina. Echi delittuosi del passato che riaffiorano, una femme fatale che fa da raccordo, un ex poliziotto decaduto, la materia – riportata nel titolo – che assume una valenza criminosa (il ‘carbone nero’ e sporco come l’omicidio e il ‘ghiaccio sottile’ su cui la lama affilata scivola pronta a farsi arma), la città divenuta trappola e luogo di perversione e follia sono gli ingredienti che creano l’atmosfera nera della detective story vincitrice. La giuria presieduta da James Schamus ha amato molto il film cinese perché l’attore protagonista Liao Fan si è aggiudicato anche il premio per la migliore interpretazione maschile. Il verdetto è giunto del tutto inaspettato, soprattutto dopo la visione di Boyhood di Richard Linklater che sembrava aver sbaragliato ogni possibile concorrente e che invece è stato premiato ‘solo’ con l’Orso d’argento alla migliore regia. Il progetto curato pazientemente per circa un decennio da Linklater, il ritratto di una famiglia americana vista con gli occhi del figlio che cresce, è sicuramente il nostro Orso d’Oro. Non capita spesso, purtroppo, di vedere un film maturo e intenso nel catturare il fluire del tempo concentrandosi sull’ordinarietà del quotidiano per riuscire a realizzare un affresco composito sulle intime percezioni dell’individuo, sulla famiglia americana e sugli ultimi dieci anni di storia di un Paese.

Anche l’amato e coloratissimo Wes Anderson, tra i big habitué del festival, non viene lasciato a mani vuote e si aggiudica il Gran Premio della Giuria. Una Europa in ginocchio piegata dagli orrori della guerra, in cui la bellezza decade in un’avventura dove con garbo ed eleganza si corre per non cadere vittima dell’intrigo. E poi la carrellata di bislacchi e colorati personaggi/star, finemente caratterizzati per divertire lasciando un retrogusto amarognolo. Questo, e molto altro, è The Grand Budapest Hotel, alla cui grazia e rivisitazione storica nel segno dell’immaginazione andersoniana è spettato il compito di aprire il concorso. Il giapponese The Little House di Yoji Yamada ha vinto meritatamente il premio per la migliore attrice assegnato a Haru Karoki, la domestica di una famiglia benestante che nello scrivere le sue memorie ricorda il segreto custodito per proteggere la donna per cui lavorava. La potenza di questo film dai toni pastello è l’umiltà del punto di vista, affidato allo sguardo di un personaggio piccolo, marginale, testimone di un incontro amoroso non vissuto in prima persona. Yamada dona grandezza cinematografica al sommerso mondo dell’ordinario, mettendo a fuoco i tumulti degli ultimi per immortalare la Grande Storia. Infine la Germania con i suoi ben quattro film in concorso ha ricevuto il Premio alla Sceneggiatura per Kreuzweg, scritto dai fratelli Dietrich Anna Bruggerman sul martirio di un’adolescente cresciuta in una famiglia di fondamentalisti cattolici e raccontato attraverso le 14 stazioni della Via Crucis. Al novantenne Alain Resnais è andato il premio innovazione per Aimer, boire et chanter, mentre ad aggiudicarsi L’Orso d’Argento per il miglior contributo tecnico è stato Zeng Jian per la fotografia di Blind Massage, premio che ha fatto storcere il naso. Con il consenso dei più ha vinto il premio per la migliore opera prima Güeros di Alonso Ruizpalacios, autore teatrale passato al cinema che nella ratio 4:3 e in bianco e nero ha coraggiosamente costruito un road movie lungo le strade di Città del Messico alla ricerca del cantautore che fece commuovere Bob Dylan. Accanto a un Orso d’Oro debole (si voleva portare l’attenzione sulla Cina?) e poco convincente, ci sono anche i grandi esclusi del festival. Senz’altro il debutto di Yann Demange, ’71, su una Belfast dilaniata dal conflitto dove al protagonista Gary Hook (Jack O’Connell) non resta che correre e diffidare di tutti, e In Order of Disappearence con Stellan Skarsgard, humor brillante e solide interpretazioni, ignorati a torto dalla Giuria.

Francesca Vantaggiato


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