Pubblicato da fabrizio centofanti su novembre 20, 2011
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Si chiamava padre Turoldo e aveva capito molte cose.
Ci sono momenti in cui ti pare che Dio passeggi ancora nel giardino: quando il sole appare all’improvviso tra le foglie e le nuvole sono batuffoli posati sui comodini azzurri, in ospedale – perché ti viene da piangere, quando pensi all’ospedale?
Forse perché hai paura di restare solo? Perché gli amici ti seguono finché le tue parole si scandiscono nell’aria come gridi di rondini, annunciando una felicità che nessuno immaginava?
Aveva intuito che il sinodo dei vescovi custodiva potenzialità esplosive, l’immagine di una Chiesa libera e fedele, fraternità in cui Cristo risorgeva davvero, non solo nelle formule di riti trasformati in abitudini noiose.
La galleria, il pozzo, la voragine, richiamano ciò che nella vita non si è ancora realizzato, una strada sconosciuta, un bacio che non sei riuscito a dare.
Chi non avrebbe dubbi nel momento in cui le forze ti abbandonano e l’energia che sentivi scorrere copiosa s’inceppa e tutt’a un tratto, le mani si fanno pesanti, la bocca è impastata dal catarro.
Aveva intravisto la fiamma di un roveto di fronte al quale Mosè si era dovuto togliere i calzari – e non sono, ogni uomo, ogni donna, un roveto che arde senza consumarsi, non li attraversano passioni, desideri che vorrebbero dirsi, che arrivano alla punta della lingua e spandono la fragranza calda del camino?
Il sole, dietro gli alberi, sembra un ostensorio: vorresti fermarti, comprendere cosa si nasconde nel silenzio che si è fatto tronco, ramo, radice che affiora dalla terra.
Non viene forse, in quei momenti, un’angoscia, una paura, la sensazione che persino Dio ti abbia abbandonato? – anche se qualcuno sostiene che il Cristo avesse detto: Dio mio sei tu, l’inizio del salmo che continua: all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia. Ho sete! Lo vedi, tutto torna.
Non ci saremmo più voltati indietro: se la storia tocca certe rive, non può fingere di non esservi mai giunta.
E capisci che Dio, Dio era là: nell’aria fresca del mattino, nella pioggia che scendeva sulle guance, come potesse piangere con le tue lacrime soltanto, il verso del fringuello appena sveglio, come se l’unico sorriso di cui disponesse fosse il tuo.
Dicono che la vita si capisca meglio dalla parte del silenzio: ti chiedi, allora, a cosa serva il flusso dello scrivere, la sorgente che si fa torrente e poi fiume che corre, corre fino al mare, portandosi dietro le parole, le virgole, i giri infiniti delle frasi che a volte ti lambiscono, altre ti sbilanciano e travolgono, fino a immergerti nel vortice caotico dei sensi possibili, dell’intuizione improvvisa, dell’assurdo.
Cos’è una Chiesa che non suscita speranze, incapace di strapparti al meccanismo arrugginito delle ore, muta di fronte alla richiesta di risposte più profonde?
Ecco, il sole tra gli alberi è un ostensorio avvolto nell’incenso, cadi in ginocchio di fronte alla scoperta che Dio è negli occhi, nel battito del cuore, nella sete dell’altro – a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua.
E’ più facile accettare il male del dolore, hai mai provato? Ti sei sentito, una volta, sommerso dalla forza bruta della sofferenza, figlio bianco e vermiglio, figlio senza simiglio, figlio, a chi m’appiglio?
E’ iniziato il futuro, non ha più alibi una Chiesa che volesse perpetuare una ripetizione stanca di gesti e di parole, una fede prigioniera di formule, un rito che non scardina le porte blindate del tuo io.
Ricordo, cara, la volta che ti riconobbi: mi specchiai negli occhi, pensai per un attimo di poter dimenticare, che tutto potesse cominciare un’altra volta; ricordo che non ebbi paura di morire, perché le labbra dissero da sole – ero in trance, mentre mi colpivano i raggi dell’ostensorio in mezzo agli alberi, mentre il pozzo sprofondava nell’ignoto e i batuffoli d’ovatta si sfilacciavano sul ripiano del comodino azzurro – poiché la tua grazia vale più della vita – ripetilo, ti prego, nell’ora della nostra morte – amore, ho dimenticato davvero tutto il resto, per un momento, il lampo verde dei tuoi occhi, il dolore incomprensibile, il canto del fringuello: esulto di gioia all’ombra delle tue ali. Amore, ho sete.
Dio passeggiava nel giardino, amore, e io, io, ancora non me n’ero accorto.