Anno: 2013
Durata: 95′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Francia/Polonia
Regia: Roman Polanski
Si sapeva che l’arrivo in chiusura di Roman Polanski avrebbe sbaragliato ogni (personale) certezza o preferenza di vittoria, messo in crisi i pronostici di un festival che negli ultimi giorni aveva ristretto a una manciata di favoriti il numero di papabili vincitori. La proiezione di Venus in Fur ha riaperto i giochi, dunque, con la messa in scena circoscritta al palcoscenico di un teatro, unico spazio messo a disposizione dei due soli personaggi, interpretati da Emmanuelle Seigner e Mathieu Amalric – entrambi in forma smagliante – che ammaliano lo spettatore in un gioco vertiginoso di scambi di ruolo.
Amalric é Thomas, un regista teatrale in cerca dell’attrice appropriata al ruolo di Vanda, la protagonista del suo adattamento del romanzo ‘Venus in Fur’ scritto dall’austriaco Leopold Von Sacher-Masoch. Le audizioni si concludono nel disastro, Thomas è deluso dall’inadeguatezza delle attrici fino a quando non si presenta Vanda (Seigner) la quale nonostante i suoi modi volgari, la sua disperazione e la sua ignoranza ostentata, ottiene un provino e sorprende Thomas, costretto da lei a vestire i panni di Severin, il protagonista maschile che da ragazzino fu sculacciato dalla zia davanti a uno stuolo di serve. È lei l’attrice tagliata per la parte.
A due anni da Carnage, trasposizione cinematografica della pièce teatrale Il dio del massacro di Yasmina Reza, Polanski si lascia ancora una volta ammaliare dal teatro affondando le radici di Venus in Fur nello spettacolo di David Ives, basato sull’omonimo testo di fine ’800 che ispirò il termine ‘masochismo’. Un lungo piano sequenza ci conduce all’interno di un teatro parigino passando per un viale alberato: la porta si apre su Thomas, l’adattatore-regista che si lamenta al telefono con la fidanzata, mentre il palcoscenico è occupato dai resti di scena di un musical belga che si rifà a Ombre rosse. Decadenza e attrazione, sottomissione sessuale e piacere derivato occupano la scena e si declinano in ruoli che, come nel romanzo, sono interscambiabili e continuamente contesi. Regista e attrice si trascinano in un incontro di seduzione sadomasochista (lei definisce la rappresentazione un porno sadomaso, lui una grande storia d’amore) danzato sul confine tra realtà e finzione, ne violano i limiti, lottano per dominarsi. Nello spazio claustrofobico della scena Polanski denuda il rapporto tra regista e attore, tra chi plasma e chi si lascia plasmare, tra chi conduce il gioco e chi lo segue, portando alla ribalta il patto di dominazione bilaterale intrinseco. Vanda, che con l’eroina di Thomas condivide solo il nome essendo lontana anni luce dalla figura descritta dalla sua penna, si lamenta più volte della natura misogina e sessista del testo (lei definisce la rappresentazione un porno sadomaso, lui una grande storia d’amore) e, trasformandosi nella sofisticata Vanda del libro indossando vari abiti e accessori estratti dalla sua grande borsa, riesce a soggiogare con una forza di parole e di gesti inarrestabile Severin/Thomas. Vanda è la dea della vendetta, un’Afrodite irruenta che decide quando concedere il potere alla sua controparte e quando scagliarsi in tutta la sua maestosità contro di essa. Nel processo di negoziazione tra le parti di servo e padrone, Thomas non è più nè Severin né il regista dell’opera, è se stesso nudo e crudo – e trasformato in un Polanski da giovane come se assistessimo al passaggio del testimone artistico – che sul palco mette in scena i tumulti della sua anima.
Francesca Vantaggiato