Cosmos
di Andrzej Zulawski
con Sabine Azéma, Jean-François Balmer, Jonathan Genet
Francia, 2015
genere, draamatico, surreale
durata, 103'
Il giovane Witold (Jonathan Genet) si rifugia in un piccolo paesino per
studiare dopo aver fallito degli esami di diritto. Insieme a lui c'è il
coetaneo Fuchs (Johan Libéreau), appena licenziatosi da una casa di moda
parigina. I due alloggiano in una casa dove assistono a strani eventi e
scorgono segni misteriosi: Witold vede subito un passerotto impiccato
nel bosco, poi un pezzo di legno, macchie sui muri, rastrelli che
indicano dei percorsi geometrici immaginari. Anche la famiglia ospite ha
delle peculiarità: la padrona di casa Madame Voytis (Sabine Azéma) è
sempre in uno stato emotivo sopra le righe che quando è all'apice la fa
cadere in una trance momentanea; il marito Leon (Jean-François Balmer)
produce tic verbali ed è soggetto a improvvisi impulsi
ossessivo-compulsivi; la giovane domestica Catherette (Clémentine Pons)
ha un labbro imperfetto a causa di un incidente e non vuole curarselo;
Lena (Victória Guerra), figlia di Madame Voytis, appena sposata a un
giovane architetto, è in un continuo stato bipolare, passando da momenti
di pianto isterico a stati di euforia provocatrice che proietta su
Witold, affascinato dalla sua bellezza.
Sono solo alcuni degli
elementi del complesso e stratificato film del regista polacco Andrzej
Zulawski, che torna al cinema dopo quindici anni dalla sua ultima opera
"La fidélité", e presentato in prima mondiale al 68esimo Festival di
Locarno. Tratto dall'omonimo ultimo romanzo dello scrittore Witold
Gombrowicz, Zulawski scrive una sceneggiatura che in qualche modo resta
fedele al testo innestando alcuni stilemi del cinema.
"Cosmos" è
un giallo filosofico, dove la vittima è la comprensione della realtà che
si è fatta frattale e il linguaggio - sia segnico che fonico - è uno
strumento spuntato e imperfetto. Un trattato filosofico per immagini
alla ricerca di senso in cui far implodere tutto l'universo culturale
occidentale. Innanzi tutto il cinema con le continue citazioni esplicite
a Pier Paolo Pasolini("Teorema") e Steven Spielberg (oggetto di ironia da parte di Leon) o implicite, con i rimandi continui ai film di Luis Bunuel;
al tono surrealista di "L'age d'or"; al finale ripetuto di "Tristana";
al personaggio doppio interpretato dalla stessa attrice di "Quell'oscuro
oggetto del desiderio", qui rappresentato dalla cameriera Catherette e
dalla parente Ginette; e soprattutto da "Il fascino discreto della borghesia"
per la struttura di alcune sequenze intorno ai pranzi e cene che
finiscono sempre male o l'intervento del prete raccolto sulla strada.
L'operazione prosegue con un processo di innesto di letteratura
surrealista, come gli elenchi di parole (recitati da Witold e Leon con
primi piani insistiti), i calembour, le connessioni inconsce, i dettagli
di animali (l'uccello, il gatto, i vermi, la lumaca sulla brioche
durante la colazione di Witold, le mosche che fuoriescono dal prete
nella sequenza finale del bosco, ecc...). Abbiamo poi una conduzione
degli attori che si rifà al teatro dell'assurdo e quindi a una
recitazione razionale e naturalistica ne subentra una espressionistica e
irrazionale, all'interno di dialoghi dove la logica è assassinata (un
omicidio dell'immanenza per arrivare a un sorta di trascendenza).
Un
altro elemento su cui discutere è la messa in scena del processo
creativo artistico. Witold ben presto passa dai libri di diritto su cui
deve studiare a comporre prima un racconto che si trasforma in un
romanzo (un polar come vorrebbe Fuchs) e diventa alla fine una
sceneggiatura di un film come egli stesso dichiara al suo amico. Del
resto il giovane protagonista è sia una rappresentazione in prima
persona dello scrittore Gombrowicz (fin dal nome Witold) sia una
proiezione dello stesso Zulawski (che oltre a essere regista è anche uno
scrittore di romanzi e racconti e molte delle sue opere concepite come
sceneggiature sono poi nate come romanzi e viceversa). La spinta alla
rappresentazione (o meglio alla sua impossibilità) è palese in tutto
"Cosmos", ma non riesce mai a raggiungere una sua compiutezza
simbolica-segnica né una rappresentazione per immagini (ad esempio,
operazione invece riuscita a David Cronenberg con "Il pasto nudo") restando legato troppo a un
logos che non si trasforma in
eikon.
Non
è l'unico limite di "Cosmos". Zulawski abbandona i toni di angoscia
esistenziale focalizzati su attanti che agiscono all'interno di uno
spazio filmico metafisico e irrealistico (e migliore espressione di
questo tipo di cinema lo abbiamo con "Possession")
per abbracciare un ambizioso progetto onnicomprensivo che ingloba, come
abbiamo scritto, differenti fonti culturali: dal cinema alla
letteratura, dalla pittura al teatro. La chiave filosofica della messa
in scena risulta una composizione sì erudita ma che conduce a un
intellettualismo fine a se stesso, autocompiacente, che pur basandosi su
un processo espressionistico e irrazionale, nel momento stesso in cui
diventa programmatico perde l'
espressività emozionale.
Oltretutto Zulawski in questo senso delude lo spettatore, rifugiandosi
in temi e stilemi legati a una concezione del mondo d'interesse
cinquant'anni fa, creando un film manierista, senza una
contestualizzazione contemporanea e non aggiungendo nulla di nuovo
all'arte cinematografica. "Cosmos" nella sua bulimia culturale non si
eleva come soggetto/oggetto assoluto ma riproduce un cinema (d'autore)
del passato.
Antonio Pettiere
(pubblicato su ondacinema.it/speciale 68 festival di Locarno)