da qui
Cesare comincia a dare segni d’impazienza: non si è accorto, il Cavedagna, di aver lasciato Medardo e Viola dietro il cespuglio di lentisco, dopo che Vangelis gli ha scaricato addosso un caricatore di Beretta? Non potrebbe organizzare gli appunti, in mezzo alla montagna di scartoffie, in modo da controllare i passaggi della trama? Oggi chiunque può scrivere un romanzo: se vai in edicola, ti sommergono di corsi di scrittura tenuti dall’ultimo prodotto editoriale della pubblicità mediatica, che impartisce lezioni come queste: per scrivere bisogna saper leggere, oppure: evitare che l’epilogo sia scontato, o peggio: avere qualcosa da dire. Quando s’imbatte in perle simili, Cesare si chiede se valga la pena infilarsi nella serie infinita dei replicanti narrativi, e soprattutto cerca di distinguersi, di mostrare a modo suo che non tutti s’inchinano ai dettami della moda corrente. La scena di Vangelis che spara nel cespuglio è un banco di prova sufficiente: le foglie tremano per il contraccolpo, l’eco raggiunge la macchia verdescura che si dilata intorno, la polvere secca del sentiero si solleva verso la pineta, perfino la coltre di nuvole biancastre sussulta controvoglia e retrocede. Al di là del lentisco si coglie un grido soffocato: difficile dire se sia un urlo di dolore o l’estrema propaggine di un amplesso travolgente, ignaro del contesto, di Vangelis che cerca di capire se sia rimasto un colpo in canna o si debba accontentare di quelli appena esplosi. Ma ora ha tempo solo per cercare Brice in ospedale: non sa che lo aspetta un altro colpo, che ognuno ha il suo lentisco nella vita, sospeso fra dolore e gioia, tra il piacere di essere e l’angoscia di morire, e non è facile distinguere, non sai mai veramente se sei vivo o morto, nel profondo.