7MML coinvolge professionisti dell’immagine e della comunicazione in un viaggio ispirato dal cuore e guidato dal desiderio di conoscere altre realtà, finalizzato all’aiuto umanitario, alla valorizzazione etica ed estetica del viaggiare consapevole, alla sensibilizzazione ecologica nei confronti dell’ambiente.
La prima fase del viaggio ha visto i partecipanti arrivare dall’Italia al Kazakistan, poi è stata la volta del viaggio fino ad Hong Kong. Ora, dopo un salto oceanico, una squadra tutta al femminile è partita dal Canada con l’intento di raggiungere il Panamá. Le offerte raccolte da questa tappa verranno destinate alla Casa delle Donne, associazione attiva nella lotta alla violenza contro le donne.
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Dal diario di Alice Cristiano
24 settembre
La chiamata è arrivata alle 10 56. Una di quelle chiamate che ti sembra di aspettare da tutta la vita. Come quella della banca che ti comunica che ti è rimasta da pagare solo l’ultima rata del mutuo. Quelle chiamate, insomma, che ti sollevano dalle spalle un camion con rimorchio. O un quarto di bue. Era Henrik: “Le vostre jeep sono arrivate”, ha detto, quasi trionfante. Come se ci stesse comunicando di essere riuscito a finire il cubo di Rubik in quattro secondi e ventidue. “Finalmente”, abbiamo pensato. Anche se, ad essere sinceri, il pensiero è stato formulato in termini vagamente meno raffinati.
Alle 13.13 del 24 settembre eravamo in partenza, destinazione Stati Uniti d’America. Passata l’eccitazione iniziale, adesso possiamo ammettere che l’America non ci ha esattamente accolte a braccia aperte. Sorvolerò sui dettagli, diciamo solo che pure gli Americani non è che siano esattamente scientifici nella burocrazia. Io mi auguro vivamente che il gps installato sull’auto fosse svenuto, che non abbia monitorato le quattro volte che siamo entrate e uscite dal confine. Canada, Stati Uniti – Stati Uniti, Canada – Canada, Stati Uniti – Stati Uniti – Canada. Ogni volta con un foglietto dai colori fluo appiccicato sul parabrezza.
28 settembre
Dio benedica l’America. E non c’è sicuramente bisogno che lo chieda io, ci pensano a sufficienza loro, gli americani. Se dovessi scegliere un’immagine per raffigurare il Paese che abbiamo visto in questi tre giorni di migliaia di chilometri, di piazzole di sosta e motel a bordo strada, è un paesaggio desolato, fatto di dune o di rocce, di pianura o di montagne, di cielo che cambia luce ad ogni curva. E una bandiera, a stelle strisce, che appare quando credi che in quel punto, in cui la vedi sventolare, non ci abbia mai messo piede nessuno. E invece qualcuno il piede ce l’ha messo e l’ha fatto per ribadire un concetto: “Sono americano”.
E non si dice nulla di nuovo parlando del loro patriottismo. È un concetto ormai digerito, sicuramente più di quello che qui ti servono da mangiare. L’assurdità di un intero territorio la cui cultura è riuscita a far diventare l’insalata ipercalorica e il “God Bless” un inno nazionale. Eppure, quando te lo trovi sbattuto in faccia, in mezzo al nulla più assoluto, ti lascia addosso una sensazione strana. Ed è la sensazione che abbiamo provato abbandonando per un attimo l’autostrada per seguire un cartello che indicava la fascinazione, anche questa tutta americana, di un ranch.
Il ranch non l’abbiamo trovato, abbiamo però trovato una scritta: “A place of honor for those who served with honor”. Un posto d’onore per quelli che hanno servito con onore. Un cimitero militare, dietro l’autostrada ma talmente raccolto che sembrava sorgere in mezzo al niente, tra dune di sterpaglia bruciata dal sole, in un punto della California che è quasi Sierra Nevada eppure sembra già essere diventato Messico. Dovessi scegliere la sensazione sarebbe forse lo stupore. Una distesa silenziosa di lastre di marmo, sopra incisi i nomi dei caduti di tutte le guerre. Vietnam, Iraq, Afghanistan. Mezzo secolo di soldati e nessuna concessione a individualismi. Tutte uguali e schierate, in fila ubbidienti sotto la bandiera americana.
Un paese maestoso, imperativo, che ti lascia sconcertato per la capacità che ha di cambiare mille facce e prospettive rimanendo sempre uguale a sé stesso. Capace di trasformare tutti quelli che la abitano in una sola, unica, grande persona. Contraddittoria, a volta ridicola, piena di sé. Ma anche dignitosa, affascinante. Il paese in cui ti sembra sempre di essere dentro un film. E non capisci se sia per colpa di tutti i film che qui sono stati girati o se la causa effetto sia al contrario. Ti viene il dubbio che l’America sia scenografica di suo. Bella, quasi finta. Spoglia, eppure densa. Surreale.