Il secondo punto da trattare riguarda la trama del film che, a differenza di quanto si possa pensare, e vedere all’inizio, è più che altro una commedia nera. Colin Farrell, protagonista della pellicola, interpreta uno sceneggiatore, Marty, in crisi di creatività, che decide di scrivere il film “7 Psicopatici“, attingendo dai racconti del suo fidato amico Billy e da quanto raccontano la cronaca nera e le leggende metropolitane. In questo gioco di cinema dentro al cinema, ad un certo punto lui dice, riferendosi al soggetto che sta scrivendo: “Sai come vedo il film io? Nella prima parte dovrebbe far credere che si tratti di una classica storia di vendetta. Violenza, pistole, insomma le solite stronzate. Poi, non so bene come, i protagonisti principali se ne vanno. A un certo punto vanno in macchina nel deserto, mettono una tenda da qualche parte e si mettono a parlare per il resto del cazzo di film. Niente sparatorie, niente rese dei conti, solo esseri umani che parlano.“. Ed in fondo questa è una sintesi precisa di ciò che succede realmente, se non fosse per il suo migliore amico che stravolge il finale, della sceneggiatura che sta scrivendo Marty e quindi del film di cui stiamo scrivendo, rispondendo “Ma che vuoi fare, scrivere un film francese? Questo è il finale più stupido del mondo!“. E così il film finisce tra sparatorie e psicopatie, decisamente più adatto allo stile dei personaggi e al titolo della pellicola.
Il terzo punto riguarda proprio gli psicopatici, interpretati perlopiù da istrionici attori come Christopher Walken, non nuovo a ruoli sopra le righe come ne “Il cacciatore” o “Il mistero di Sleepy Hollow“, che interpreta un religioso e vendicativo psicopatico; Sam Rockwell, attore straordinario e psicopatico in “Soffocare” o “Il miglio verde“, che qui interpreta Billy; Woody Harrelson, decisamente meno psicopatico rispetto a “Natural born killers“, che interpreta il ruolo del cattivo che ama smisuratamente il proprio cagnolino; e Tom Waits, apprezzatissimo attore dei film di Jim Jarmush, nei panni di un vecchio con un coniglio in braccio ed un passato da killer . A questi poi si aggiungono Colin Farrell, protagonista, e in ruoli marginali Michael Pitt, Abbie Cornish e Olga Kurylenko.
Questo punto, il quarto, lo dedichiamo ai punti positivi che il film propone. Innanzitutto il cast, sopracitato, è a dir poco eccezionale e meritano una ennesima menzione Sam Rockwell, decisamente lo psicopatico più riuscito e grottesco, Christopher Walken, che ha una mimica pazzesca in grado di concentrare l’attenzione tutta su di sè, e Tom Waits che interpreta il marito in una coppia di serial killer di criminali e riesce, nonostante l’assurdità delle storie che racconta, ad essere intimo e profondo, e persino commovente. Ed è proprio questa atmosfera tra serio e grottesco, tra pulp e commedia, che eleva il film che si propone di non prendersi troppo sul serio, slegandosi al filone tarantiniano, pur omaggiandolo. La missione riesce in pieno perchè la pellicola di McDonagh diventa godibile e visivamente curata. I dialoghi poi, da buona tradizione tarantiniana, sono esilaranti e mai scontati, rapidi e fulminanti, e soprattutto non sono privi di cultura, così come non lo sono molte delle situazioni raccontate. Si parla di amore, vendetta, Gesù, Gandhi, e dei monaci buddhisti che si diedero fuoco in protesta alla guerra del Vietnam specie dopo il massacro di My Lai, ed in tutto questo probabilmente il film di McDonagh fa il record di persone bruciate vive, perchè se ne contano diverse in mezzo a tutte quelle pallottole, decapitazioni e corpi macellati.
Ovviamente è il momento degli aspetti negativi, perchè il film ne ha comunque alcuni. Innanzitutto il personaggio di Colin Farrell è forse troppo fiacco rispetto agli altri, e se sia voluto o meno non è dato saperlo, però è di sicuro un fatto che stoni con l’atmosfera folle che pervade il film. E poi ci sono i soliti momenti sentimentali e di amicizia che in un film di Tornatore ci starebbero pure, ma che in questo caso forse abbassano il livello di attenzione: è come se non ci fosse stato il coraggio estremo di rischiare, ma si è preferito bilanciare la follia con momenti più intimi e, diciamolo, noiosi. Allo stesso modo, questi momenti creano conseguenze pericolose come la prevedibilità di alcuni risvolti della storia. Tutto questo non fa che provocare una caduta di intensità nella parte centrale, quella che il personaggio di Colin Farrell definisce “solo esseri umani che parlano“.
Punto numero sei: lo spettatore. Meritava un punto a parte perchè l’idea, molto simpatica a dire il vero, di fare un film nel film, comunque non del tutto nuova nel mondo del cinema, cattura lo spettatore che, per alcuni brevi istanti, sembrerà quasi convincersi che il personaggio di Colin Farrell sia in realtà ispirato al regista e sceneggiatore Martin McDonagh, ipotesi avvallata dal nome del suo personaggio, ossia Marty. Non sarebbe da sorprendersi quindi se nasce l’idea che le vicende narrate siano gli eventi reali che hanno ispirato la scrittura del film. Probabilmente bisognava insistere di più su questo aspetto e giocare di più con “l’ingenuità” dello spettatore, ma si è preferito limitarsi all’esagerazione della finzione, ed il risultato è comunque buono, ma non del tutto eccezionale.
Ultimo punto è per la conclusione ed il voto. Il film è un buon prodotto, e come sempre si poteva fare di più. In sintesi è un ottimo modo per passare due ore, magari per i più profondi è la scusa per approfondire temi come gli orrori patiti dai monaci buddhisti durante la guerra del Vietnam, e per i più mainstream è sicuramente l’occasione di vedere parecchi cadaveri, buone sparatorie e discreti momenti di tensioni. Il voto? Non poteva che essere
7/10