8 marzo: non c’è niente da festeggiare

Creato il 08 marzo 2016 da Sveva

Non abbiamo niente da festeggiare care donne oggi. Nessuna mimosa, nessun messaggio sdolcinato da schiere di uomini che pregustano la loro serata di libertà perché le loro donne saranno fuori casa a festeggiare. Ho sempre mal tollerato questa “festa”, per il facile consumismo, per le orde urlanti di donne che impazziscono di fronte a spogliarellisti, per i luoghi comuni che si sprecano in questa giornata.

Oggi penso più che mai che non abbiamo niente da festeggiare noi donne. Cosa possiamo festeggiare? L’emancipazione che vede donne ricche sfruttare donne povere per farle mettere al mondo un figlio e strapparglielo dalle mani appena nato? O forse dobbiamo festeggiare il trattamento spesso denigratorio e discriminatorio di cui siamo oggetto sui luoghi di lavoro quando rientriamo dalla maternità? O ancora il fenomeno delle spose bambine che in molte parti del mondo vede dare in sposa ogni giorno 37.000 di  bambine a uomini molto più vecchi?  Possiamo forse festeggiare i tre milioni di bambine che ogni anno vengono mutilate?  O tutte le donne vittime della violenza in ogni sua forma?

Questa giornata dovrebbe essere una giornata di riflessione , di silenzio, di preghiera, una giornata in cui noi donne non ci dimentichiamo delle altre giornate che durante l’anno nel calendario vengono dedicate ad esempio alla violenza contro le donne, il 25 novembre, o il 6 febbraio contro le mutilazioni genitali. Tutte giornate contro qualcosa che uccide il corpo e l’anima delle donne, e poi una bella giornata per bilanciare il calendario per festeggiare invece le cose belle delle donne.

Non mi sento in questo giorno di festeggiare l’universo femminile in un momento storico in cui assistiamo ad una violenza sulle donne perpetrata dalle donne stesse. Sono molto spesso donne infatti quelle che si mettono alla ricerca insieme al proprio partner di una donna che affitti il proprio utero per gestare il loro figlio. Se ne parla da mesi ormai su tutti i media, facendo spesso riferimento al mondo omosessuale, senza ricordare che anche le coppie eterosessuali ricorrono spesso a questa forma di schiavitù. Fino a che delle donne saranno disposte a mercificare il corpo di un’altra donna non ci sarà nulla da festeggiare. Il termine con cui si definisce la gestazione per altri è “utero in affitto”, i linguisti definirebbero questo termine una figura retorica chiamata sineddoche che consiste nell’usare una parte per definire il tutto. E cosi diciamo comunemente “utero in affitto” per dire invece “corpo e anima di una donna in affitto”, perché quando si chiede ad una donna di “prestare” il proprio utero e farlo diventare un contenitore per nove mesi  non le si sta affittando solo l’utero ma l’anima. Si sta affittando tutto il suo corpo, che porterà impressi persino nelle osse i segni di quella gravidanza e di quel parto, si sta affittando il suo tempo, nove lunghi mesi di simbiosi con la creatura che porta in grembo cancellati da una firma su un contratto, si sta affittando il suo cervello, che per sempre ricorderà lo scalpitare della vita dentro di sé.

Fiumi di parole sono stati scritti a questo proposito, tanti ancora se ne scriveranno, l’unica cosa che possiamo fare noi donne è indignarci di fronte ad una forma di violenza così subdola che si configura come la nuova schiavitù del nostro tempo, solo quando noi donne smetteremo di rendere schiave altre donne allora potremo festeggiare. Non prima.