In attesa di conoscere il vincitore della quarta edizione di 8×8 che sarà proclamato a Torino, il 14 maggio (Salone Internazionale del Libro, Caffè letterario, ore 11,00), abbiamo intervistato gli editor Raffaella Lops, Davide Musso, Alessandra Penna, Dario Rossi e Christian Soddu cui sono stati assegnati i racconti selezionati. Sul sito di Oblique potete leggere gli editing.
Christian Soddu, editor di Fazi, ha editato il racconto di Filippo Nicosia Assenza di gravità (nella prima stesura si intitolava Con i tempi compassati dell’assenza di gravità). Qui la nostra recensione.
Ci può elencare i pregi e difetti del racconto che le è stato assegnato?
I pregi hanno senza dubbio a che fare con l’atmosfera che l’autore è riuscito a creare, attraverso una scrittura pulita, pacata, volutamente fredda e iperanalitica: quello che di solito potrebbe essere considerato un difetto – lo spezzettamento dei gesti dei personaggi, la continua radiografia del loro spostarsi all’interno di uno spazio ristretto – diventa una qualità. Ci sono non più d’un paio di battute di dialogo in tutto il racconto, i personaggi non parlano praticamente mai, eppure lasciano ben percepire, attraverso l’occupazione dello spazio e la propria fisicità, il chiasso che si gonfia dentro di loro. E questo “chiasso compresso”, poi, è senz’altro in relazione con l’altro grande pregio del racconto, che va al di là dell’aspetto formale: ossia l’idea di partenza di porre a confronto, uno di fronte all’altro, il Dolore nella sua declinazione più pubblica e, se si vuole, retorica possibile – quello per la morte di nostri militari le cui salme rientrano in Italia –, e un altro Dolore, intimo, domestico, segreto, che ha a che fare con la decadenza di un corpo, le costrizioni che ne derivano, le ripercussioni sul terreno dei rapporti familiari.
Quali margini di intervento ci sono su un racconto breve come questo?
Be’, in un racconto lo spazio d’intervento è solitamente più limitato che in un romanzo: la forma breve richiede la capacità dell’istantanea d’autore, saper fermare qualcosa, intuirlo più che esplorarlo, suggerirlo più che spiegarlo. Su un terreno del genere, non si può intervenire troppo sulla struttura in base a chissà quale meccanismo narratologico che non è stato osservato appieno; né si può, all’opposto, lavorare troppo sulla scrittura col pretesto di “riutilizzare” pur di salvare una buona idea di partenza. Il racconto è un colpo solo: deve andare a segno fin da subito. In questo caso ci si è limitati a cesellare qualche frase per ragioni di equilibrio e, a livello di contenuto, seminare degli “indizi” per rafforzare ulteriormente l’idea alla base del racconto, rendendola forse più immediatamente accessibile al lettore, ma sempre con discrezione, e concedendo qualcosa, infine, all’elemento sorpresa. Questione di centimetri, insomma.
Quanto incide sul buon esito del suo lavoro avere a che fare con un autore alle prime armi?
Con gli autori meno esperti e con gli esordienti in genere il lavoro può essere indubbiamente più “spericolato”, ma anche più divertente: è come conoscere qualcuno per la prima volta, c’è un momento di settaggio iniziale, magari un po’ caotico, forse perfino condizionato dai rispettivi e sempre colpevoli narcisismi. Ma una volta raggiunta un’intesa, lavorare insieme a una storia, a qualunque livello di profondità d’intervento, diventa bellissimo. Ed è doppia la soddisfazione che si prova alla fine, col libro pronto per la tipografia. Diciamo che rispetto al lavoro con autori più esperti, che magari hanno già assimilato una certa capacità di autocontrollo sulla propria scrittura, o riescono a resistere più facilmente all’innamoramento per ogni singola parola scritta, di modo che il taglio di un aggettivo non viene necessariamente percepito come l’amputazione di un arto, lavorare con un esordiente prevede tutti i rischi di una situazione in cui c’è qualcuno più pronto a gettarsi tra le tue braccia per essere aiutato, ma in modo più lunatico, con improvvise resistenze o anche, al contrario, eccessi di arrendevolezza. L’editor, in questo caso, dovrebbe essere ancora più cauto a non sovrapporsi all’autore e a non sfruttarne le insicurezze iniziali.
In sintesi: con quelli più esperti si lavora DI SOLITO più tranquillamente; con gli autori alle prime armi, SEMPRE DI SOLITO, il lavoro è però più stimolante. E l’esito del lavoro, alla fine – fatto ovviamente salvo il requisito imprescindibile: le doti di chi scrive – dipende più dalla capacità di adattamento dell’editor che non dal curriculum pregresso dell’autore.
Se questo racconto non fosse stato selezionato da 8×8 ma le fosse capitato casualmente sotto gli occhi, lo avrebbe comunque preso in considerazione?
Direi proprio di sì, compatibilmente alla legge spietatamente invalsa (e falsa) degli editori che dicono spesso «NO» ai racconti perché “Non si vendono”.
Quali scenari si apriranno per il vincitore della finale di Torino?
Be’ per il vincitore, e non solo per lui, il clima parrebbe propizio, dal momento che la caccia all’esordiente è lo sport praticato attualmente con maggiore accanimento dalle case editrici. Anche se lanciare un esordiente è una cosa complessa, forse la più complessa, nella quale entrano in gioco elementi ulteriori, pane per gli addetti al marketing e per l’ufficio stampa.
Può dirci quali sono le maggiori soddisfazioni e i peggiori rimpianti nel mestiere di editor?
A volte si dice degli editor ciò che spesso si dice dei critici: scrittori mancati, costretti a lavorare su ciò che scrivono gli altri. In realtà alcuni grandi autori sono stati anche bravi editor – insomma, scrivere come Bassani e scoprire Il Gattopardo non è male.
A ogni modo, parlo a titolo del tutto personale, la gioia di questo mestiere continua a coincidere con una soddisfazione di carattere artigianale: sì, la solita immagine della pietra grezza che poi ecc. ecc. ecc.
In pratica, una storia e un autore che riescono a dire ciò che dicono, e a dirlo perfettamente – ossia nel modo più vicino a ciò che avevano in mente fin dall’inizio – anche grazie all’intervento di un occhio esterno. Un occhio esterno che sia un detonatore di potenzialità altrui.
Poi c’è il resto. C’è l’aspetto umano, piacevolissimo o spiacevolissimo. Ma per fortuna vale quasi sempre il primo caso. E c’è ancora altro: c’è la macchina. Quella dell’editoria. Esaltante, chi lo nega. Oggi – ma anche questa è un’opinione personale, anche se un po’ “alla” Franzen – la macchina è un po’ ingolfata su una certa autoreferenzialità mediatica, sul parlar tanto, tantissimo, dei suoi stessi ingranaggi, pericoli, digitalizzazioni, prospettive. Così come c’è tutta una fenomenologia dello scrittore la cui attenzione, dall’aspetto prettamente letterario, si è spostata sul “personaggismo” vero o presunto degli autori. Ecco, queste cose, probabilmente inevitabili, aprono spazi nei quali “bisogna esserci”. Il buzz-marketing, il cecchinaggio o le mitragliate su Twitter, tutto il lavoro per “costruire” l’attenzione – prima ancora dell’eventuale consenso – intorno a un libro e a un autore, sono cose assolutamente imprescindibili, che però, per indole, non classificherei tra quelle che più amo di questo lavoro. Sia comunque chiaro: su Twitter ci vado.
Dario Rossi, editor di Transeuropa, ha editato il racconto di Pier Franco Brandimarte Un ristorante vero (nella prima stesura si intitolava Ristoranti a L’Aquila). Qui la nostra recensione.
Ci può elencare i pregi e difetti del racconto che le è stato assegnato?
È un racconto fatto di piccole descrizioni. In qualche modo rientra nel filone minimalista, con i dettagli che sono correlativi oggettivi di emozioni inespresse, però quest’attenzione descrittiva ha qualcosa anche dell’ossessione più analitica del Nouveau Roman (o forse del Palomar di Calvino). Comunque, che sia una questione di emozione o di percezione della realtà, sempre dettagli sono. E non è semplice inserire le singole istantanee visive in un tessuto propriamente narrativo. Infatti proprio questo era il problema. Il lato positivo è che il racconto aveva già in sé la possibile soluzione, poiché conteneva già un germe di narrazione: quella fame, quella ricerca di un “ristorante vero”che poteva essere in grado, da sola, di mettere ordine tra i dettagli disseminati fino a quel momento. Si trattava di lavorare meglio quel germe, farlo per l’appunto germinare.
Quali margini di intervento ci sono su un racconto breve come questo?
Molto stretti. Devi calibrare bene. Se tu hai di fronte un romanzo di 200 pagine, in certi casi puoi permetterti di intervenire pesantemente sulla struttura, sui personaggi, sulla trama, su tutto, di ridiscutere ogni cosa con l’autore. Invece, che senso avrebbe rivoltare come un guanto un racconto di due pagine? Tanto varrebbe dire all’autore: questo non va, scrivine un altro. Poi c’è un elemento da non sottovalutare: i racconti finalisti hanno già avuto una loro vita prima dell’editing: sono stati votati da una giuria, sono stati letti in pubblico, sono disponibili sul sito di Oblique. La loro fisionomia è già precisa. A maggior ragione devi riuscire, con l’autore, a intervenire chirurgicamente. A una prima occhiata, deve sembrare tutto molto simile alla versione precedente.
Quanto incide sul buon esito del suo lavoro avere a che fare con un autore alle prime armi?
Ci sono pregi e difetti. Un autore alle prime armi è fortemente geloso dei suoi testi, e ti guarda in cagnesco per tutto il tempo che gli stai attorno. L’editor ai suoi occhi ha l’appeal del barbaro che viene a incendiare il villaggio. Però se riesci a conquistare la sua fiducia, puoi raggiungere un ottimo livello di collaborazione. Inizi a pensare le cose in due, e a quel punto le sue valutazioni, le sue obiezioni aiutano il testo a migliorare quanto le tue. La fiducia, se è critica e non abbandono apatico, agisce come un moltiplicatore. Con gli autori navigati è un po’ diverso, c’è una maggior dose di cinismo e senso pratico che però può essere anche controproducente.
Se questo racconto non fosse stato selezionato da 8×8 ma le fosse capitato casualmente sotto gli occhi, lo avrebbe comunque preso in considerazione?
Sì. Non è un racconto perfetto, però Pier Franco ha un buonissimo occhio descrittivo e buone idee – da affinare, chiaro. Io poi ho una mia cartina al tornasole: se un dettaglio di un testo mi colpisce al punto da entrare nel mio patrimonio di immagini mentali, mi dichiaro “comprato”. In questo caso specifico, dopo aver letto il racconto non riesco più a guardare un cartello stradale che indica “Centro” senza pensare che sembra la stilizzazione di un epicentro sismico. Sembrerà stupido, ma anche in questo è la forza di un racconto.
Quali scenari si apriranno per il vincitore della finale di Torino?
Oblique è una macchina da guerra culturale, ogni sua iniziativa regala visibilità a chi partecipa. Diversi autori di 8×8, in passato, hanno finito per pubblicare, mi auguro che continui così. In ogni caso, il mondo editoriale italiano è talmente disperato e selvaggio che un aspirante scrittore si può permettere la più piena libertà. Ci sono quelli che si costruiscono una ragnatela di contatti e quelli che si lanciano come kamikaze nel nulla. I cauti e gli inermi. Preferisco i secondi, per indole, ma non nascondo che hanno generalmente più fortuna i primi. Dipende poi da cosa si intende per “fortuna”.
Può dirci quali sono le maggiori soddisfazioni e i peggiori rimpianti nel mestiere di editor?
Dirò un paio di cose che paiono brutte ma non lo sono. Credo. Lavorare come editor ti permette di usare la scrittura senza sporcarti le mani. Se provi a scrivere in prima persona, metti in gioco quel groviglio irrisolto di sentimenti e psicosi che sei. Se fai l’editor, puoi illuderti di stare al riparo da tutto questo. Ti ritagli l’immagine di un piccolo ingegnere della scrittura, se va bene un po’ creativo. Gli editor di solito dicono di lamentarsi del fatto che sono condannati al ruolo di ghost writer, impossibilitati a scrivere il romanzo della vita. Non credo sia proprio così. È un gran sollievo non avere mai la sindrome da pagina bianca, perché qualcuno l’ha già riempita per te. A te rimane il compito di aggiustarla, oliarne i meccanismi, farla funzionare. Il mio vero rimpianto, in ogni caso, è che con tutti questi manoscritti e tutti questi libri da leggere per lavoro, non rimane molto tempo per leggere tutto il resto.