Escobar: Paradise lost
di Andrea Di Stefano
durata,
La storia è quella di Nick che, dopo aver lasciato il Canada ed aver aperto una piccola attività in spiaggia col fratello, conosce e s’innamora di Maria, adorata nipote di zio Pablo Escobar.
Ed è partendo da questo punto di vista inedito che il film – complice un Benicio del Toro mostruoso nel costruire il suo personaggio, sempre sul filo del tagliente rasoio dell’imprevedibilità – va a confermarsi un prodotto d’ottima fattura e fuori dalla norma. Partendo da una fotografia curata in ogni dettaglio e che restituisce a pieno l’illusione/amarezza del titolo, passando per una sceneggiatura che matura attraverso i silenzi, laddove i dialoghi sono ridotti all’essenziale e non prendono mai troppo il sopravvento.
Andrea Di Stefano, un po’ come aveva fatto Paolo Sorrentino ne “Il Divo”, utilizza la figura di Escobar per parlare del potere e circoscriverne tutte le proprie dualità e contraddizioni. Il denaro e la popolarità diventano solo mezzi attraverso il quale il potere vuole, sempre più senza limiti, superare sé stesso, distruggere ogni cosa che gli si opponga e, attraverso le proprie facoltà divinatorie, costruirsi su come si mostra dall’esterno: intoccabile. Nick e Pablo – ne abbiamo ulteriore conferma nel dialogo che ha quest’ultimo col prete prima dell’arresto – altri non sono che, ognuno a proprio modo, l’uomo che disseta e asseconda, oltre ogni limite, la propria natura: l’illusione o l’avere il controllo di essa.
“E non Dio ma qualcuno che per noi l’ha inventato
ci costringe a sognare in un giardino incantato”.
Antonio Romagnoli