Da decenni l'Occidente si gingilla col concetto di pulsione di morte, finendo con l'averlo interiorizzato nei modi di una resa psicologica ed etica al dato-di-fatto, la superficie inerte del quale viene talvolta increspata da esplosioni di violenza pressoché immediatamente rimosse (o mal interpretate o nemmeno analizzate) nell'illusione che il mastice a base di solvibilità e oggettirichiuda la crepa e soprattutto regga. Ebbene, Miike prova a fermarsi un istante, a guardare più da vicino il tessuto di questa realtà in apparenza dai colori vividi e subito riconoscibili quanto instancabile nel garantire che domani non sarà altro che l'ennesimo oggi, e addentrandosi nelle vite di coloro - che già solo fisicamente rappresentano il futuro - su cui quella realtà punta per imporsi una volta per tutte: un gruppo di giovani uomini e donne. Nel caso, liceali.
Alla luce di ciò, se l'esistenza di gran parte della gioventù odierna e' ritmata in maniera serrata e monotona sul progressivo allontanamento dalla pratica quotidiana dei fatti (per quanto scoraggianti, insensati, banali essi siano: pensiamo alla piaga sociale degli otaku, qui ritratti tra l'ironico e il patetico) a favore di una reiterazione fondata sull'utilizzo passivo dei manufatti tecnologici, sull'assenza o limitazione degli stimoli, sul restringimento conseguente degli orizzonti ad un qui-e-ora di primo acchito eternamente promettente ma via via inflessibile, fino al momento di mostrarsi al dunque di una scelta col suo vero volto - un ghigno severo ed esigente - diventa allora sensato scaraventarne un esemplare - Takahama Shun, Takeru Amaya e Akimoto Ichiko ne incarnano nel film l'epitome più rappresentativa - all'interno di un contesto (un gigantesco cubo bianco opaco che staziona/veleggia nei cieli, subito ribattezzato dai media accorsi golosi, "il cubo di Hokkaido") tarato su misura della logica stringente di un videogioco ad eliminazione graduale dei suoi partecipanti.
Shun - annoiato e depresso quanto sensibile e di fondo disgustato di una vita già senza vie d'uscita -; Amaya - egoista e violento, prevaricatore e cinico, votato alla conservazione di se stesso come eletto di una stirpe superiore che ha il dovere morale di eliminare i più deboli -; Ichiko - dai capelli decolorati e dall'animo in bilico tra una frivola spensieratezza, una indefinita attrazione per Shun e un grumo più intimo fatto di solitudine e frustrazione - insieme ad altri appartenenti alla loro sfera comune, assurgono così a rango di protagonisti di un gioco (la vita-agli-albori-del-terzo-millennio) in cui si prende teoricamente parte a tutto e alla fine si muore spesso per niente, ossia o per capriccio o per caso.
Miike concentra la sua attenzione sul carnevale folle ma, letteralmente, iperrealista che coinvolge/usa i ragazzi; sui loro volti stravolti dal terrore, dall'incredulità, come da una sorta di serafica apatia, costruendo una messinscena al solito pulsante nei colori vistosi (il sangue, le luci della città, i tramonti al limite dell'oleografia) e veemente nelle scansioni (a cui non poco contribuisce anche il tipico piglio assertivo nipponico) ma controllata e inflessibile nell'aderenza ad una programmatica inerzia fondata sul legame di causa-effetto. Ciò che si perde, fatalmente, nel meccanismo del "passaggio al livello successivo", si recupera nella coerenza di un pessimismo che non ammette infingimenti o scorciatoie. Perché se il Male alla fine non muore, il Bene non trionfa e la sopravvivenza e' mera questione di fortuna, non d'intelligenza, non di abilita', non di forza: se, in altre parole e a conti fatti, e' questa " la volontà di Dio", sembra lecito e addiritturamorale sentenziare alla maniera di Shun: "Se Dio ha creato tutto questo, che si fotta !".
TFK (voto: ****)