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9 festival internazionale del film di roma: time out of mind
Creato il 21 ottobre 2014 da VeripaccheriUna delle prime cose che viene in mente riflettendo su un film come "Time out of mind" di Oren Moverman, e' che la sola, autentica, libertà rimasta all'individuo occidentale e' quella di sparire. Non si spiegherebbe altrimenti il calvario materiale e morale vissuto ogni giorno da George/Gere, uomo che ha perso il lavoro, non ha mezzi, famiglia (se non una figlia che non frequenta più ma spia di tanto in tanto dall'esterno della vetrina del bar in cui lavora), amici, e del quale il mondo - il mondo delle opportunità e del benessere, il mondo in cui ogni desiderio ha un nome e un'etichetta col prezzo sopra - semplicemente non ne vuole sapere. Spesso il cinema di Moverman si e' mosso entro i meandri scomodi del dolore e della perdita: pensiamo all'esordio alla sceneggiatura per "Jesus' son" (1999), sui racconti di Denis Johnson; ai reduci spostati di "The messenger" (2009), o al poliziotto disadattato di "Rampart" (2012). In "Time out of mind" il passo rallenta e si concentra sulla vita minuta di un uomo-massa solo e confuso (un Gere controllato e convincente nell'esprimere lo smarrimento, l'incredulità e il disinganno che ha portato via al personaggio, lentamente ma senza scampo, persino il tempo, quello del titolo, cancellandone le tracce dall'esperienza comune, al punto da forzarlo ad esclamare con allibito scoramento: "Io... non esisto"); sui tentativi spesso patetici - se non fossero tragici - di racimolare un pasto o un letto; sui peripli insensati all'interno di un organismo burocratico deputato in linea teorica alla sua salvezza e auspicabile reinserimento che, al contrario, lo umilia e lo esaspera con la richiesta, per dire, della copia di un documento inesistente al fine di avere accesso all'assistenza o con la sistematica ingiunzione di rispondere a questionari la cui mancanza di qualunque sensibilità tipica delle regole e dei protocolli, alla fine, non fa che rimestare oscenamente nelle pieghe di sofferenze tutt'altro che superate o anche solo rimarginate. Ciò che può in via erronea sembrare una sorta di spaccato sociologico descrittivo ed anodino ed invece rappresenta il quotidiano di un numero sempre maggiore di uomini e donne, si avvale di una messinscena sobria - attenta ai dettagli, ai mutismi imbarazzati, ai piccoli gesti trattenuti o abortiti - come intrisa di una qual mesta eleganza e sostenuta dalle meravigliose luci della fotografia espansa di Bobby Bukowski, livida e splendente sulle cose e sui volti durante i giorni freddi di una primavera che tarda ad arrivare; morbida e densa negli interni desolati, nelle sale d'aspetto degli ospedali o nei locali pubblici ove si consuma il teatrino sfinito di una cordialità che oramai stenta a passare persino nelle formule convenzionali di un linguaggio che non interroga mai, davvero, l'umano ma si limita a gestirne le circostanze esteriori. Meno convincente e' la scelta di dilatare alcune scene oltre la loro naturale conclusione: il ritmo interno dell'opera, via via, ne risente, non aggiungendo di fatto nulla allo spessore emotivo dei protagonisti o alla tensione narrativa della storia. Come che sia, Moverman, pur alludendo nel finale ad una possibilità di rinascita - l'unica sensata, l'unica degna - compone l'ennesimo ritratto avvilente e scoraggiante di questa nostra presunta modernità, di un altro nuovo secolo ottimista e sorridente per contratto, quanto crudele e oppressivo per quel poco che resta nel cuore dell'uomo. TFK (voto: ***1/2)
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