#958 pubblicità sessiste denunciate nel 2010.

Da Marypinagiuliaalessiafabiana

Sono novecentocinquantotto pubblicità sessiste, se teniamo conto di quelle che sono state denunciate nel 2010 dal grande movimento femminile (e maschile) che si è sviluppato questi ultimi due anni (specialmente l’anno scorso) sul web.

E’ del 7,7% rispetto al 2009, l’incremento delle immagini lesive alla dignità femminile nella pubblicità, tra cui il 79,5% delle ingiunzioni che hanno avuto come fine quello di tutelare l’immagine della donna, secondo i dati forniti dallo Iap.

Sono numeri da capogiro e nonostante fosse cambiato il vento, non accennano a diminuire così come le resistenze culturali, spesso dalla controparte maschile, che tendono a trattare il tema come poco importante, arrivando addirittura a dissentire (con ingiurie) contro quelle che denunciano come vengono rappresentate nelle rèclame commerciali e in tv.

Se quasi mille pubblicità hanno offeso le donne rinchiudendole all’interno di ruoli sessisti, forse qualcosa in Italia non va e si tratta di un problema tutt’altro che poco importante, poichè non solo non sono altro che una delle tante discriminazioni che le donne subiscono nel nostro Paese ma vi è un problema di percezione delle donne da parte degli uomini oltre che una forte gerarchia di genere. Dissentire contro chi protesta significa confermare questa percezione distorta che sta distruggendo l’identità femminile, come se quell’immagine stereotipata che vediamo spesso sui 3×6 e in tv appartenesse al femminile o come se quella posizione femminile stereotipata fosse dettata dal dna anzichè dalla mentalità maschilista dominante. 

Intanto vi rimando ad un bellissimo articolo di fareitalia che parla di questo argomento:

 Che cosa accadrebbe se due uomini di colore fossero costretti a ballare, in Tv, di fronte a a milioni di telespettatori, sulla scrivania su cui sono sedute due donne bianche attempate, oppure appesi a un gancio come prosciutti, sotto lo sguardo ilare di tutti? Probabilmente si leverebbe un coro di proteste, se non una vera e propria sollevazione dell’opinione pubblica. Perché, al contrario, se, come di fatto accade, al posto dell’uomo di colore c’è una donna, per giunta quasi nuda, nessuno si ribella? Perché appare ovvio che le giovani donne siano trattate in tv come oggetti, svolgendo ruoli che non richiedono alcuna competenza? È davvero ipotizzabile la parità di opportunità tra uomo e donna se non vi è parità di rappresentazione mass mediale?

Da questo complesso di quesiti, circa una anno fa, è stato promosso dalla Rete il comitato spontaneo “donne e media” capeggiato da Gabriella Cims, raccogliendo centinaia di adesioni alla richiesta di tutelare maggiormente l’immagine delle donne trasmessa dalla televisione pubblica. Una battaglia vinta con successo che, diventando un case history italiano, ha contribuito, in maniera determinante  all’inserimento di 12 emendamenti finalizzati a una corretta veicolazione dell’immagine femminile nel nuovo contratto di servizio Rai. Adesso il comitato sta attivando una nuova battaglia, quella relativa a un “Codice di autoregolamentazione Donne e Media”, in linea con quelli già adottati negli altri paesi europei e valido per tutti i mezzi di comunicazione, non solo per Rai.

Tra le prese di coscienza da cui parte l’iniziativa, c’è il fatto che la donna in tv e nella pubblicità ricopre ruoli specifici che la vedono comparire in forma di modella, velina, bella ragazza, cuoca, oppure vittima protagonista di qualche disgrazia o violenza. Questi ruoli non solo non tutelano l’immagine femminile, ma la triste constatazione emergente è che le donne, le donne vere, stiano scomparendo dalla tv, sostituite da una rappresentazione virtualmente grottesca, volgare e umiliante. Un fenomeno ben raccontato da Lorella Zanardo nel suo documentario Il corpo delle donne che ha spopolato sulla Rete ed è diventato un punto di riferimento sul tema. Attraverso l’analisi di migliaia di trasmissioni, la Zanardo racconta come Il modello ibrido di donna che campeggia al centro della programmazione della maggioranza dei palinsesti o delle campagne pubblicitarie sia quello di un oggetto erotico a completa disposizione del maschio, cui talvolta si trova associato un atteggiamento aggressivo, quello di una femmina che gestisce quasi managerialmente-virilmente la sua immagine. Una donna alla quale si costruisce una reputazione di schiava o di padrona, mai né libera né amorevole, che campeggia anche nei cartelloni delle piazze e degli autobus, e la cui presenza costante provoca una serie di effetti culturali drammatici.

Questa pressione mediatica sta lentamente stravolgendo l’identità delle donne sotto lo sguardo di tutti, ma senza che vi sia un’adeguata reazione, nemmeno da parte delle donne stesse. A conferma di quanto avviene, vi sono i dati dell’Istituto per l’Autodisciplina pubblicitaria (Iap) secondo cui i casi di pubblicità volgare o lesiva dell’immagine della donna sono stati 958 nel 2010, cioè il 7,7% in più del 2009 e che tra le ingiunzioni e istanze del Comitato, ben il 79,5% hanno avuto come fine quello di tutelare l’immagine della donna. Lo stesso presidente della Repubblica, in un recente convegno sul tema, ha sottolineato come sia ormai evidente che la comunicazione di un’immagine della donna che risponda a funzioni ornamentali o che venga offerta come bene di consumo offende profondamente la dignità femminile. Non solo, secondo Napolitano, questo stile di comunicazione nei media, nelle pubblicità, nel dibattito pubblico può offrire un contesto favorevole per la proliferazione di molestie sessuali, verbali e fisiche, se non veri e propri atti di violenza anche da parte dei giovanissimi.

Parole dure e vere che hanno dato ancora più forza alle donne che hanno fatto rete e che adesso, chiedendo al ministro delle Pari opportunità di farsi promotrice dell’appello finalizzato all’inserimento di un codice di  autoregolamentazione valido per tutti gli strumenti di comunicazione. Dalla Rete, quindi, sempre più strumento di democrazia, riparte una battaglia finalizzata a porre una questione di pari opportunità sull’agenda politica italiana.

Fonte:Fare Italia mag



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