Qui in montagna la terra puzza di secco e abbandono, il crepuscolo è ancora distante innumerevoli ore pomeridiane, e sulla cima più piccola e gialla, di un giallastro rovente e disidratato, il fogliame ancora verde è sparpagliato sulle braccia legnose dei frutteti, con eleganza e maestria. Si può perdere la vista a guardare in direzione di quella montagna, per la fluorescenza del tappeto di foglie secche che illumina la bordatura dipinta separatrice di cielo e terra.
Il venticello spontaneo del mattino, sposta le viti legate a fila in perfetto ordine indiano, sfiora appena le piantagioni più forti partorite sul pendio meno scosceso della montagna e cuoce l’acconciatura scomposta della tradizionale ragazza di campagna.
Ha paura di non sopravvivere al giorno o di non resistere alla posizione scomoda cui è vittima da tre miseri minuti, dalla disperata corsa tra le viti e i ciliegi mentre tentava di raggiungere, prima del vento e del suo stesso battere di ciglia, una farfalla dalle sfumature pastello che volava ad andamento armonico e ondulatorio. Si sarebbe posata – con molta probabilità – sull’ultimo ciliegio che anticipava il precipizio. Non si sarebbe accorta di nulla.
Le espressioni, quelle divertite di lei e quelle fuggiasche della preda, con modalità instabile e repentina, non si sarebbero fatte inquadrare da una macchina da presa neanche per un attimo, neppure i capelli frettolosamente acconciati della ragazza avrebbero occupato per intero l’obiettivo della cinepresa.
Correvano tanto velocemente che l’arbitro avrebbe segnato fallo, senza che lei sarebbe riuscita a fare goal. Un fallo inevitabile che preannunciava brutte conseguenze sin dal fischio di rigore, dall’inizio della corsa: non avrebbe più giocato, non sarebbe mai più scesa in campo, e non avrebbe provato piacere a rincorrere altre farfalle.
Al ruotare della lancetta, quando ebbe attraversato l’angolo del cerchio – seppure privo di lati – superando la mezza, la farfalla avrebbe fatto lo stesso, deviando l’albero di ciliegio della probabile, ed ora impossibile, destinazione e l’avrebbe abbandonata al tragico destino, al di là del precipizio.
Un salto di gambe, e – in quel momento esatto – l’obiettivo avrebbe volentieri catturato la scena prima che il fotografo vedesse il soggetto andare giù – tutto d’un colpo – strattonata da un troncone spezzato e secco; graffiata dalle erbacce malefiche e spinose; scivolata – infine – sul fogliame ingiallito che l’avrebbe condotta in una miracolosa presa naturale.
La pelle, reduce della caccia alla farfalla, produceva sudore che avrebbe salato l’intero oceano, mentre la faccia arrovellata porgeva la sua dannata espressione nel vuoto, nell’illusione di salvarsi.
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