In una delle mie prime esperienze lavorative ho insegnato materie letterarie ai corsi serali, scegliendo come destinazione Montese. E agli adulti, molti più grandi di me, raccontavo la storia dell’Italia democratica, una storia, sui luoghi di quella che fu la Linea Gotica, scatenando, spesso, dibattiti accesi. In quel tratto di Appennino, il fronte era molto affollato e l’attività bellica particolarmente cruenta: c’erano i tedeschi, i fascisti, i partigiani (brigate, divisioni…), gli eserciti alleati e infine, tra le file di coloro che soccorsero un’Italia che aveva cambiato alleanze, c’era quello strano battaglione venuto da lontano che parlava una lingua difficile da capire, una lingua che produceva parole morbide, una lingua che mal si coniugava con la terra spaccata dal gelo, con la pioggia che gonfiava le ossa e minava i polmoni.
Erano gli uomini della Força Expedicionária Brasileira mandati in guerra a difendere il diritto alla libertà per volontà di un presidente innamorato del potere e fortemente digiuno, con il proprio popolo, di nozioni di democrazia. Uomini in armi destinati a raggiungere il Sud dell’Europa, mal equipaggiati e spediti, in mezzo alle montagne dell’Appennino tosco-emiliano, nel bel mezzo di un inverno gelido. Dovevano combattere battaglie montanare a venti gradi sotto zero con scarpe che si scioglievano e pleuriti che falcidiavano i più sfortunati. Le avversità, però, non scoraggiarono gli audaci arrivati dal Sud America che mostravano fieri lo stemma della FEB, un’icona da fumetto con un cobra che fuma la pipa, e combattevano con coraggio. Un coraggio che lasciò il segno. E a quegli uomini che sognavano di mangiare fagioli neri e manioca a cui i montanari modenesi offrivano la dolcezza della pasta della castagna e, quando c’erano, le uova, oggi a Montese è dedicata una piazza, una strada, due monumenti, una sezione del museo di storia locale. Un pezzo di storia difficile da trovare nei libri, una storia alla quale non venne dato il giusto risalto della cronaca, una storia da ricomporre con frammenti sparsi, una storia di uomini che non ambivano a diventare eroi, ma che conoscevano l’onore, la dignità, il rispetto, la solidarietà. Soldati che hanno incontrato l’amore, scritto canzoni struggenti (Mia Gioconda), lasciato spose di guerra, mentre facevano i conti con una geografia che li obbligava a cambiare piani, tattiche, che li vedeva procedere accanto a partigiani esperti di quelle zone non tracciate dalle mappe, combattere fianco a fianco a quegli uomini senza divisa, disposti a dividere con loro il pericolo, nei silenzi obbligati della macchia. Uomini che sono rimasti nella memoria collettiva di un paese: tra i tanti anche un giovane ventiquattrenne che rispondeva al nome di Celso Furtado, ottima conoscenza dell’inglese, in guerra con il ruolo di interprete diventato poi uno dei grandi economisti del mondo, candidato al Nobel. In questi giorni è uscito nelle sale italiane Road 47, un film firmato da regista brasiliano Vicente Ferraz, che mette in luce la storia dei soldati brasiliani, raccontando le gesta di un gruppo di genieri nell'inverno del 1944.
Silvana Sola