A cosa serve essere laureati?

Creato il 06 aprile 2011 da ////

Voglio riportavi un’interessante articolo di Marina Valensise apparso qualche ora fa sulle pagine de Il Foglio .

Strano, ma in fondo mica tanto. Molti dei grandi geni d’oggi, gli inventori d’eccezione che con le loro diavolerie hanno cambiato i nostri costumi, abitudini e i nostri modi di pensare non sono laureati. Non hanno frequentato le aule universitarie. Il che è certamente un elemento di preoccupazione per quanti riflettono su istruzione e innovazione, cercando di associarle in un binomio indissolubile. Per esempio il fondatore di Microsoft, Bill Gates, figlio di un famoso avvocato di Seattle e di una direttrice di banca, a 13 anni era stato iscritto all’esclusiva Lakeside School di Haller Lake, prestigiosa scuola privata, ma appena scoprì la bellezza di un computer, cominciò ad arrivare tardi in classe, a marinare le lezioni, e smise di fare i compiti a casa. Di scuola e di programmi scolastici non ne voleva proprio sapere, tutto preso com’era dalla sua passione di hacker e di programmatore. A 18 anni si iscrisse a Harvard, prima a Legge, per far piacere al padre, poi a Matematica. Ma dopo i primi tempi, abbandonò corsi e seminari, lasciando spalancate le porte della sua cella nel dormitorio, per passare le giornate con Paul Allen a fare esperimenti al Centro di informatica.

Steve Jobs, peggio ancora. L’industriale e il creativo più famoso del mondo, cofondatore di Apple, inventore dell’iPod, dell’iPhone, dell’iPad, è coetaneo di Gates. Nato nel 1955 da uno studente siriano e da una ragazza che sarebbe diventata ortofonista, venne adottato da una coppia californiana, lui tecnico lei contabile. Era una peste, un ragazzo difficile. Dopo il liceo all’Homestead High School di Cupertino, si iscrisse al Reed College di Portland, istituzione liberal, progressista e antiautoritaria, il cui motto ufficioso era “Communism, Atheism, Free Love”. Ma l’abbandonò dopo un solo semestre, anche se continuò a frequentare i corsi di calligrafia come auditore libero, dormendo sul pavimento delle stanze degli studenti amici, raccogliendo bottiglie di Coca-Cola per racimolare qualche dollaro, e mangiando a sbafo dagli Hare Krishna. Un bel giorno partì per l’India come monaco mendicante, perché buddista, avrebbe voluto praticare il buddismo per tutta la vita. Poi, col vicino di casa Steve Wozniak, con cui aveva iniziato a frequentare l’Homebrew Computer Club, si mise a lavorare sui circuiti di un videogioco dell’Atari, e insieme a lui fondò la Apple che ebbe come prima sede il garage di casa Jobs e come primo finanziamento, vuole la leggenda, il ricavato dalla vendita del pulmino Volkswagen di Jobs e dalla calcolatrice di Wozniak.
Anche l’ultimo golden boy dell’informatica, Mark Zuckerberg, l’inventore di Facebook che ha cambiato il modo di gestire i nostri rapporti personali, si distingue per un curriculum senza laurea. Nato trent’anni dopo Bill Gates e Steve Jobs, in una cittadina dello stato di New York da un dentista e una psichiatra, Zuckerberg ha masticato informatica sin da piccolo, quando il padre gli insegnò i rudimenti della programmazione Atari Basic, e lo fece seguire da un professore privato di software, che si arrese subito di fronte ai prodigi del genietto. Pur essendo stato uno studente modello, che a scuola collezionava premi di matematica, astronomia e fisica, e inanellava straordinarie performance in latino e greco (famose le sue recite dell’Iliade) anche Zuckerberg è un “drop out” in termini universitari. E’ stato per breve tempo a Harvard, dove da matricola creò quasi per scherzo il programma e il sito che avrebbero fatto la sua fortuna.

Dunque, che ci sia qualche difficoltà nelle istituzioni accademiche per stare al passo coi tempi e soprattutto col genio che inventa i nostri tempi, sembra evidente. E’ un dato di fatto, almeno a giudicare dalla biografia dei grandi. Ma che nell’epoca dell’informatica e della rivoluzione tecnologica continua esista un problema di formazione della massa, non legato solo alla formazione dei singoli geni, ma all’organizzazione stessa delle nostre società, e che esista un problema culturale e forse anche simbolico, al fine di garantire attraverso un’istruzione qualificata un buon livello di reddito, è un tema che in America, dove tutto avviene prima che in Europa, sta appassionando esperti e specialisti.

Di impatto della tecnologia sulla divisione del lavoro, recentemente, se ne è occupato anche Paul Krugman, professore a Princeton e premio Nobel per l’Economia nel 2008. In un articolo uscito all’inizio di marzo sul New York Times, Krugman ha preso spunto da un’inchiesta di Time Magazine per ribadire come grazie ai computer si possono fare in breve tempo tantissime ricerche di tipo legale, si possono analizzare milioni di documenti e confrontarli tra loro, cosa che un tempo richiedeva centinaia di avvocati. Dunque, ha concluso Paul Krugman, il progresso tecnologico, in questo caso, riduce la domanda di lavoratori qualificati, con un alto livello di istruzione universitaria. E questo è un fatto nuovo. Un tempo, in effetti, l’idea dominante era un’altra: si pensava che la tecnologia avrebbe eliminato solo i lavori meno qualificati, le mansioni più modeste. Errore, dice Krugman. Quest’idea adesso viene smentita dai fatti. Dal 1990 a oggi, il mercato del lavoro negli Stati Uniti ha registrato uno svuotamento dell’occupazione per quanto riguarda le mansioni ad alto reddito, mentre le mansioni a basso reddito sono cresciute rapidamente, e i lavori a reddito medio hanno avuto una crescita più lenta. Come mai? Non eravamo abituati a pensare che il progresso tecnologico avrebbe favorito chi svolgeva un lavoro intellettuale, danneggiando invece i lavoratori manuali?

In realtà, questa teoria ha fatto il suo tempo. Si fonda su un ragionamento sbagliato. E già due economisti di Boston, anni fa, l’avevano dimostrato: Frank Levy, che insegna Economia urbana al Massachussetts Institute of Technology, e tiene corsi di Microeconomia destinati ai futuri laureati in Pianificazione urbana, e Richard Murnane, che insegna alla Graduate School of Education di Harvard, hanno studiato il modo in cui il cambiamento legato ai computer e alla tecnologia digitale altera il mercato, determinando una nuova divisione del lavoro (“The New Division of Labor: How Computers are Creating the Next Job Market”, Princeton University Press). Diversamente da quanto si riteneva in passato, i computer infatti eccellono nei lavori di routine, quei lavori che si possono compiere seguendo procedure esplicite. Dunque impiegati, colletti bianchi, tecnici, statistici si trovano a essere le categorie professionali più esposte e vulnerabili. Al contrario, i computer hanno scarsa presa sui quei lavori manuali che non seguono regole esplicite, per esempio il lavoro di camionista, di rammendatrice, di custode di museo. Sono lavori manuali difficili da automatizzare e quindi impermeabili alla tecnologia. Di conseguenza, la previsione è che questi lavori tenderanno ad aumentare nonostante il progresso tecnologico.

Da liberal progressista, Krugman dunque invita a mettere ordine nel settore dell’istruzione, ponendo fine all’immenso spreco di risorse che la diseguaglianza delle condizioni di partenza rappresenta per l’America. Ma da realista avvertito Krugman riconosce pure che è una “pia illusione” sperare che mandando molti più ragazzi all’università si possa riportare in vita la società borghese. Quel tempo, dice, è definitivamente tramontato. Se vogliamo una società fondata sul benessere condiviso, l’istruzione non basta. Non è quella la risposta. Bisogna innanzitutto recuperare il potere contrattuale che la manodopera ha perso negli ultimi trent’anni, per fare in modo che sia i lavoratori ordinari sia i lavoratori superqualificati possano contrattare una buona retribuzione.

Sullo sfondo della preoccupazione di Krugman, del resto, c’è un problema spinoso di evoluzione e di governo della società, che da tempo dilania l’opinione pubblica americana. Quanto conta l’università per trovare lavoro? Serve davvero a trovare un buon lavoro? La domanda l’ha posta un anno fa Daniel Indiviglio sulla rivista Atlantic. E la risposta è stata senza equivoco: prendere un diploma universitario è una scelta ottusa, dal momento che molti lavori non lo richiedono più. Questo l’argomento, corroborato da alcuni dati del Bureau of Labor Statistic presentati dal New York Times, in base ai quali su trenta lavori, di cui si prevede una rapida crescita nel prossimo decennio, solo sette richiedono una laurea. E tra i dieci lavori in espansione solo due richiedono la laurea, e cioè quello da contabile e quello di professore universitario, anche se già si prevede che la loro espansione verrà ad essere limitata per la crescente domanda di infermieri specializzati, di addetti all’assistenza a domicilio, di rappresentanti del servizio clienti e di impiegati nei grandi magazzini, tutti lavori che non richiedono una laurea.

E’ anche vero, osserva sempre Daniel Indiviglio, che la domanda da porsi è un’altra. Non quali siano i lavori per i quali serve la laurea, ma cosa chiedono i datori di lavoro. Poiché di solito chi ha un diploma di laurea ha prospettive di retribuzione migliori, c’è chi sostiene che per questo valga la pena frequentare l’università. E se si analizza la curva delle retribuzioni settimanali negli ultimi trent’anni, si scopre che per i laureati è aumentata da 900 a 1.000 dollari, mentre per i semplici diplomati è diminuita da 600 a 400 dollari. Questo però non vuol dire – obietta Indiviglio – che la laurea sia necessaria, ma soltanto che i datori di lavoro preferiscono chi ce l’ha. Sicché, il valore del diploma di laurea è diventato come una profezia che si autoavvera, vale tanto solo perché sono in molti a pensare che debba avere un valore.
Ma se il 10 per cento dei lavori che vengono svolti dai laureati non ha bisogno di un diploma di laurea per le competenze richieste, e se il 10 per cento di quei laureati non fosse andato all’università, è anche vero che ci sarebbe stata comunque una domanda per quei lavori e quei lavori sarebbero andati a gente senza diploma di laurea. Perciò, conclude l’Atlantic, il fatto che i laureati guadagnino di più non vuol dire che il loro diploma dia loro delle conoscenze in più necessarie per avere successo; significa soltanto che i datori di lavoro li trovano più attraenti a causa del loro diploma di laurea.

Molti studenti poi si laureano in materie che servono poco sul piano professionale, come l’antropologia o la letteratura russa, e finiscono per intraprendere carriere che nulla hanno a che fare con la loro formazione. Eppure, la laurea continua a offrire loro una marcia in più rispetto a chi ha fatto soltanto il liceo, perché i datori di lavoro preferiscono assumere uno che abbia studiato pure una materia irrilevante ai fini del lavoro, piuttosto che uno che non abbia studiato per niente.

Allora la vera domanda è un’altra,
e cioè: la sovraqualificazione è o non è un problema sociale? Dopo tutto, che c’è di male in una società che ha più conoscenze di quelle che servono? Semplice, risponde l’Atlantic, c’è un problema di costi e di spese. Gettando soldi nella formazione, molti studenti contraggono enormi debiti prima di vedere il primo stipendio, o forse i loro genitori spendono i risparmi che avrebbero potuto godersi negli anni della pensione. E questo si aggiunge ai problemi del debito pubblico. I giovani adulti avrebbero risparmiato di più e forse anche investito un po’ nell’economia, mentre tutti i loro guadagni extra finiscono nel rimborso del prestito contratto per frequentare l’università.
Infine, c’è anche il costo-opportunità del tempo passato a studiare invece che a lavorare. Il mercato del lavoro, per il momento, non ha bisogno di un maggior numero di lavoratori, ma in una sana economia queste persone avrebbero potuto contribuire più presto alla crescita del pil e mandare avanti la loro carriera qualche anno prima. Dire che l’università conta ed è importante per molti giovani è fuori discussione. Ma dire che serve per tutti o per la maggior parte dei giovani, non è così evidente.

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