La controversa e conflittuale relazione tra Freud e Jung, aldilà delle dispute teoriche che la contraddistinse, fu anche attraversata dalla vicenda di Sabina Spielrein, paziente di Jung nonchè sua amante segreta, che diventò a sua volta psicoanalista molto acuta, al punto da influenzare il pensiero dell'ultimo Freud. Il film trae spunto dall'opera teatrale "The Talking Cure", di Christopher Hampton e dal libro "A most dangerous method", di John Kerr.
"A Dangerous Method", che ho visionato all'anteprima nazionale organizzata a Milano dalla Società Psicoanalitica Italiana, segnala a mio parere un'evoluzione artistica significativa del cinema di David Cronenberg. Il regista canadese sposta infatti il baricentro della sua poetica verso un orizzonte puramente mentale. Gli interessa il dramma psicologico (come già avviene peraltro in "A History of Violence", 2005), non più la trasformazione psicofisica (come in "La Mosca", 1986, o "Inseparabili", 1988 o "Crash", 1996), e perché questa sua svolta sia la più chiara possibile, prende in esame il conflitto tra due grandi menti della storia della psicoanalisi, cioè quella di Sigmund Freud e quella di Carl Gustav Jung. Da tale conflitto trae origine la nascita della Psicoanalisi stessa, attraverso vicende complesse come quella di Sabine Spielrein, paziente di Jung, che ne diventerà l'amante, nonchè successivamente collega (diverrà psicoanalista infantile, sotto i buoni auspici di Freud, dopo essersi definitivamente separata dalla storia con Jung, e porterà la psicoanalisi in Russia, dove sarà fucilata dai nazisti insieme alle sue due figlie, Renata ed Eva). La prima cosa che mi è venuta in mente dopo la visione di "A Dangerous Method", è che a Cronenberg non interessa qui il tema della relazione erotico-sentimentale tra paziente e analista. Non è quel tipo (comunque grave) di trasgressione, che il regista intende esplorare. Cronenberg desidera invece investigare il tema del contrasto - potente, pericoloso, dangerous- tra due anime, tra due individui, legati insieme dai loro imperscrutabili intrecci inconsci . E' lo scontro, la violenza psichica (come in una sorta di "Crash", ma non più dal peso materico di corpi e metalli automobilistici) tra due menti nel loro avvicinarsi e interagire su piani profondi, che desta il totale interesse del regista e lo assorbe in 99 minuti di grande intensità, che mettono in scena con grande sapienza e potenza il rapporto tra Freud e Jung, soprattutto nella sua declinazione - squisitamente psicoanalitica- di rapporto paterno-filiale. Quest'ultima prospettiva la vediamo squadernata con grande poesia nella sequenza della traversata oceanica verso gli Stati Uniti, dove Freud, Jung, Ferenczi e altri psicoanalisti si recheranno nel 1909, invitati dal presidente della Clark University, G. Stanley Hall, e dove Freud terrà le note "Cinque Conferenze sulla Psicoanalisi". E' notte, e mentre Freud cammina sul ponte della nave, Jung gli racconta un sogno molto articolato, che Freud gli interpreterà come espressione di un desiderio parricida di Jung nei confronti di Freud stesso. Jung non accetterà tale interpretazione, e chiederà a Freud: 'Bene, adesso mi racconti lei un suo sogno'. Freud-Mortensen gli risponderà, in modo enigmaticamente secco, più o meno nel modo seguente: 'Non posso raccontarle un mio sogno, poichè metterei a repentaglio la mia stessa autorità'. Cronenberg sembra far ruotare tutto il suo schema narrativo su questo dialogo, a partire dal quale Jung prenderà definitivamente le distanze dal suo maestro, senza accorgersi che Freud, con quella frase enigmatica, gli stava in realtà consegnando un prezioso insegnamento tecnico, e cioè la necessità, per l'analista, di saper mantenere una giusta assimetria relazionale rispetto al paziente. Ma è proprio questa asimmetria, cioè l'Autorità del suo medico, che Sabina Spielrein sta minando fin dalle sue fondamenta, trasformando il transfert erotico con Jung in relazione erotico-sentimentale vera e propria. L'intreccio tra relazione conflittuale Freud-Jung e relazione carnale Jung-Spielrein è modellato con modalità quasi neoclassica da parte del regista canadese, che rende plastica, come una statua di Rodin, tale intreccio, mantenendolo, come dicevo più sopra, sempre sul piano dello spirito, del pensiero, della passione come moto di anime che si riguardano reciprocamente modificandosi, trasformandosi sì, ma pericolosamente. La modalità scultoreo-plastica che sto cercando di descrivere è conseguita senz'altro anche dalla gestione di un cast molto immedesimato, molto aderente alla psicologia dei personaggi. Si racconta che Viggo Mortensen durante la conferenza stampa al Festival di Venezia, abbia fatto un intervento molto acceso nel quale invitava i familiari di Jung a rendere pubbliche molte delle sue lettere, ancora non pubblicate. Uno degli analisti presenti in sala durante il dibattito dell'anteprima (Roberto Goisis, responsabile dello Spazio Cinema di Spiweb.it) ci ha riferito che Mortensen, in qualla conferenza stampa sembrava uno psicoanalista ad un congresso, più che un attore, tanto si sentiva identificato nella parte! Anche Michael Fassbender (Jung) è molto ispirato nel rappresentare l'arianesimo altoborghese dello psicoanalista svizzero, contrapposto al pessimismo ebraico del padre della psicoanalisi. Keyra Knightley teatralizza i sintomi isterici di Sabine in modo addirittura filologico (Cronenberg ha effettivamente studiato le cartelle cliniche dell'Ospedale Burgholzli, dove fu ricoverata). Oltre alla modalità "scultorea" della rappresentazione filmica, un secondo elemento stilistico di questo intenso lungometraggio, è senza dubbio la meticolosità della ricostruzione storica operata da Cronenberg: respiriamo atmosfere realmente ottocentesche, ne cogliamo l'anacronismo, la lontananza siderale dai tempi attuali. Basti pensare alla quantità di lettere che i protagonisti si scrivono con carta e penna, proprio, e ovviamente, "come una volta". Lo studio di Freud è poi ricostruito con ossessiva maniacalità, e pare che il regista sia addirittura riuscito a scoprire la marca dei sigari fumati dal maestro viennese. L'uso che Cronenberg fa di tutta l'atmosfera "anacronistica" che è capace di evocare nel film mediante la puntuale ricostruzione scenografica della Vienna dei primi del '900, è molto interessante e apre molteplici scenari di riflessione rispetto alle trasformazioni culturali e antropologiche cui è andata incontro la società post-moderna e attuale. Sto dicendo che Cronenberg, in questo film, forse molto più che in altre sue opere, è in grado di esprimere una capacità rappresentativo-simbolica, attraverso l'uso di immagini, molto elevata ed emotivamente profonda, aspetto che non può non interessare uno psicoanalista. L'affaire Jung-Spielrein rimane quindi, a mio modesto avviso, quasi accessorio, rispetto ad altri sottotesti, quasi un pretesto per parlare dell'idea di "trasformazione", altro concetto molto caro agli psicoanalisti e introdotto da Wilfred Bion. Per Cronenberg (come per Bion) la "trasformazione" psichica non è però priva di rischi, passa cioè attraverso quello che Bion chiama un "cambiamento catastrofico", un contrasto radicale, abissale, che non può che essere pericoloso. Forse si tratta anche di un auspicio, quello di Cronenberg, mediato attraverso le immagini "antiche" dell'ottocento viennese: l'auspicio che i tempi moderni che viviamo siano ancora in grado di sostenere e promuovere "rivoluzioni copernicane"; e anzi, sembra volerci dire il regista canadese, forse solo questo è il modo in cui l'umanità potrà progredire, a patto che sappia affrontare umilmente i pericoli che ogni cambiamento comporta. "A Dangerous Method": film di cui non si può mancare la visione. Regia: David Cronenberg Sceneggiatura: John Kerr, Christopher Hampton Cast: Viggo Mortensen, Keyra Knightley, Michael Fassbender, Vincent Cassel, Sarah Gadon, André Hennicke, Arndt Schwering-Sohnrey, Mignon Remé, Mareike Carrière Nazione: Canada, Germania, UK, Svizzera Produzione: Recorded Picture Company, Lago Film, Prospero Pictures Durata: 99 min Uscita nelle sale in Italia: 30 settembre 2011.