Cavallo, di Córdoba e figlio di piemontesi, era già stato Ministro dell’Economia con Menem dal 1991 al 1996, dove aveva promosso la discussa Ley de Convertibilidad, che equiparava il peso argentino al dollaro statunitense. La misura riuscì in un primo momento a frenare la iper inflazione che l’Argentina trascinava da anni. In poco tempo, però, il modello auspicato da Cavallo produsse una forte concentrazione di capitale nei gruppi finanziari. I soldi cominciarono a scarseggiare e lo Stato, guardandosi attorno, si rese conto di non avere più aziende pubbliche da sacrificare. Non c’era maniera, insomma, di rosicare qualche spicciolo. Silurato dal posto di ministro, Cavallo venne però richiamato nel 2001 da De La Rúa per dirimere la questione del buco da 7350 milioni di dollari lasciato da Menem nelle finanze pubbliche. Cavallo decise di risolvere il deficit fiscale ed il debito estero provando differenti metodologie di salvataggio, prima con el ¨Plan de competitividad¨ e quindi, di fronte all’ostracismo delle banche, rifugiandosi nel programma ¨Deficit cero¨, che prevedeva un massiccio piano di licenziamenti di lavoratori della pubblica amministrazione. Durante il mese di novembre del 2001, di fronte ad una crisi che non profilava nessuna via d’uscita, i risparmiatori iniziarono a prelevare i loro risparmi dalle banche, privando gli istituti di credito della liquidità necessaria per operare. A fine mese, la cifra totale dei ritiri raggiunse i 67.000 milioni di dollari. Il primo dicembre, Cavallo annunciò il corralito, che passa a decreto due giorni dopo. Mentre gli argentini scendevano in piazza a protestare, il Fondo monetario internazionale pensò bene di affondare definitivamente l’Argentina, congelando il prestito di 1260 milioni di dollari che sarebbe servito per riattivare l’economia. Armati di pentole (los cacerolazos), gli abitanti di Buenos Aires presero praticamente d’assedio la Casa Rosada, chiedendo d’immediato le dimissioni di Cavallo ed il ritorno alla normalità delle transazioni bancarie. Il governo di De La Rúa cercò dapprima un intendimento con l’opposizione attraverso la mediazione della Chiesa cattolica e, poi, tornato sui suoi passi dovette assistere alla recrudescenza delle manifestazioni di piazza. Il 19 dicembre la protesta si trasformò in battaglia campale. Buenos Aires divenne terreno di scontro tra la polizia ed i manifestanti che saccheggiavano negozi e supermercati, appiccavano fuoco agli istituti di credito.
Il 23 dicembre assunse la presidenza Adolfo Rodríguez Saá, un avvocato con il pallino della politica, che annunciò immediatamente che l’Argentina avrebbe sospeso il pagamento del debito estero e, con demagogia incosciente, che avrebbe conseguito la creazione di un milione di posti di lavoro. Manco a dirlo, Rodríguez Saá durò appena una settimana. Il 2 gennaio 2002 toccò a Eduardo Duhalde prendersi la responsabilità di risolvere la crisi. Per riuscire nell’impresa chiamò ad accompagnarlo Roberto Lavagna, un economista pragmatico che, ripudiate le misure draconiane provate da Cavallo, rimise l’Argentina in carreggiata, stabilendo anche le basi del boom kirchnerista.
Le ferite di quei giorni sono però indelebili: la Ley de Convertibilidad prima, il corralito dopo riuscirono nella difficile impresa di portare l’Argentina alla bancarotta, portandosi con sè buona parte della produttività del paese, oltre a due milioni di persone ridotte all’indigenza e alla dissoluzione della classe media: il 57% della popolazione argentina si dichiarava povera. Scontri e proteste proseguirono lungo tutto il 2002, raggiungendo l’apice nel giugno, con la strage di Avellaneda, dove la polizia uccise deliberatamente due piqueteros e ferì almeno altri trenta manifestanti.
Unica avvertenza: attenzione a prenderli troppo sul serio, il rischio è quello di scatenare un corralito nell’economia famigliare e di ritrovarvi in mutande.