Stanotte ho fatto un sogno.
Qualcuno mi consegnava un basso nuovo.
Era uno strumento di marca sconosciuta; avevo la certezza che fosse artigianale, benché nessuno me l’avesse detto.
Arrivava da chissà dove, chissà perché, chissà a quale prezzo (tutte variabili senza importanza, nel sogno).
Avevo solo una certezza: era mio.
Non ricordo il colore; ricordo invece, con grande chiarezza, di aver sentito una gioia profonda quando ho iniziato a suonarlo. Guardavo le dita muoversi e non riuscivo a credere di avere tra le mani un basso con un’action così bassa, ma così bassa che le corde erano a filo del manico. E non friggevano.
Tutto era semplice: le note uscivano quasi da sole.
Suonavo e sorridevo.
Con me c’erano due persone: il tizio che me l’aveva consegnato – uno sconosciuto che nel sogno non aveva volto – e il cantante del mio gruppo, che restava in disparte e ripeteva: «Visto che manico, eh? Sembra fatto di burro tanto è morbido».
Poi mi sono svegliata.
Generalmente mi diverte dare diverse interpretazioni ai sogni.
In questo caso, mi limito a considerare come la mente sia in grado di rielaborare, nel sonno, tanti piccoli elementi già vissuti, o semplicemente già pensati.
Un po’ come fanno i Take 6 in questo bell’estratto dal festival Jazz à Vienne edizione 2012. Centrifugano artisti, brani, stili e rielaborano il tutto con la sola voce, in modo davvero affascinante:
Buon lunedì, soliti lettori.