Considerazioni a margine su una ristampa da tempo attesa…
Ci ha visto lungo la newyorkese Sacred Bones nell’acquisire i diritti di pubblicazione del famigerato score lynchiano. Non poteva essere altrimenti, visto l’amore che nutre per i suoni più dark & lo-fi: non è un caso che uno dei nomi di punta dell’etichetta, Zola Jesus, abbia riletto alla sua maniera il pezzo “Lady In The Radiator”. In passato c’era stata la prima edizione, quella su I.R.S. del 1982, ma è sempre di quell’anno la versione per Alternative Tentacles (Biafra, del resto, è così innamorato del film da citarlo esplicitamente nel testo di “Too Drunk To Fuck”).
Siamo all’inizio dei Settanta, il regista di Missoula pensa all’esame di fine corso. Ha frequentato l’American Film Institute, fucina di riconosciuti talenti (tra gli altri: Terrence Malick, Paul Schrader, poi Darren Aronofsky), e come esercizio finale opta per un film in pellicola bianco e nero in 35 mm (all’inizio doveva essere un cortometraggio, aveva già lavorato su quella durata con “The Alphabet”, “The Grandmother”…). Il progetto si dimostra più complicato del previsto, tanto che la lavorazione subisce notevoli ritardi, così Eraserhead vede la luce soltanto nel 1977. Inutile aggiungere che il successo non sarà affatto immediato, anzi. Tuttavia il film ─ nonostante registri critiche negative (Variety lo stronca senza pietà) ─ viene subito adorato da Stanley Kubrick e Mel Brooks (qualche anno dopo quest’ultimo gli produrrà il dolente “The Elephant Man”) e si guadagna la possibilità di esordire al Filmex di Los Angeles, dopo di che viene programmato nei circuiti dei cinema d’essai degli States.
Blues nero
Doveva fare uno strano effetto, all’epoca, trovarsi di fronte un’opera ardita come questa (nella musica come nelle immagini), un oggetto misterioso dove si coniugano la fermezza registica di James Whale (“Frankenstein”, “The Invisible Man”) con la coraggiosa sceneggiatura degna del miglior Tod Browning (il bimbo deforme somiglia tanto a uno dei protagonisti del suo capolavoro, “Freaks”), mescolata con abilità in un cotè dark memore dell’estetica camp cara a Ed Wood (“Glen Or Glenda”, “Plan 9 From Outer Space”). Il tutto fu girato prevalentemente in notturna e con l’ardimentosa scelta del bianco e nero, cosa che faceva innervosire i tecnici di laboratorio.
Riascoltato/visto ora, comunque, il mix straniante sembra dare sempre i suoi frutti. Trentacinque anni fa un discorso come questo era di sicuro decisivo (solo l’anno prima usciva “Taxi Driver” di Martin Scorsese, con un mostro di bravura come Bernard Herrmann alle partiture, da un’ottica sì memorabile ma in fondo classica, nel metodo e nell’idea stessa di colonna sonora), però non ancora sviluppato a dovere, soprattutto non ancora assimilato dalle orecchie degli spettatori. Per la parte musicale, infatti, Lynch azzarda una proposta nuova (la base di partenza sono le composizioni per organo di Thomas “Fats” Waller), quindi non più solo archi e orchestre complete, ma oggetti dai quali estrapolare suoni (tubi metallici, strumenti di vario tipo) e rumori di fondo campionati (vedi gli sbuffi sordi da dopo-bomba della lunga e sinistra “Digah’s Stomp”, con in lontananza un organetto e i latrati di un cane), che si interfacciano assumendo sembianze più estreme del solito, liminari alla musica concreta. Potremmo parlare di una forma di blues pre-industrial piuttosto innovativa.
Alan Splet, un genio dimenticato
Nella realizzazione delle partiture si inseriscono a pieno titolo la supervisione tecnica e le idee dell’amico Alan R. Splet, un ingegnere del suono che Lynch conosce bene (continuerà a collaborare con lui, e qualche anno dopo guadagnerà stima del circuito hollywoodiano per aver contribuito al montaggio dei suoni di “The Black Stallion”, il film per ragazzi che sbancò nei botteghini alla fine del decennio). Il suo apporto non solo è decisivo, ma aggiunge quegli elementi in più che fanno la differenza. Alan si rinchiude insieme a David in un garage e si occupa della strumentazione, quindi oggettiva con efficacia le idee del futuro regista di “Blue Velvet”, riuscendo nell’intento primario, quello di creare una serie di tappeti sonori che integrino i pezzi scelti: questi infatti si rivelano per intero disturbanti, minacciosi e neri, come mai si era udito prima. Pensate a quello che più o meno in contemporanea succede con il primigenio industrial delle suburbie americane e inglesi (aggiungiamo che non è da sottovalutare il comune legame con le arti performative già importanti dell’epoca, vedi il giro Fluxus): in California i miasmi metallici di Z’EV, Monte Cazazza, Los Angeles Free Music Society e Smegma, ma anche i detroitiani Destroy All Monsters, in Gran Bretagna invece Throbbing Gristle, questi i primi attori di un periodo e di una musica affascinante, gravida di evoluzioni, della quale ancora oggi si odono i nebulosi effluvi (non a caso l’intero disco è incubo metropolitano ante litteram, quindi particolarmente affine a quelle musiche). I ritmi, dunque, si fanno all’occorrenza più sostenuti, gli sbuffi aumentano d’intensità e le lamiere si contorcono come macchine pensanti forzate da un attrezzo capace di piegare l’acciaio. Fuor di metafora, registriamo anche la volontà di inserire in queste magmatiche pièce, ricoperte di spessa polvere grigia, lacerti dei serafici dialoghi del film, che non fanno altro che aggiungere infinito malessere al tutto. Merito quindi della volontà del duo di descrivere i propri incubi a partire da note reiterate fino all’inverosimile, arrivando cosi alla creazione di una vera e propria grey area dalla quale è difficile fuggire senza rimanere atterriti.
Splet ci ha lasciati qualche anno fa in maniera discreta, senza clamore.
Piccole canzoni ed eredità
Ciliegina sulla torta un pezzo all’apparenza innocuo come la breve “In Heaven (Lady In The Radiator Song)” di Peter Ivers, scarne parole (in heaven everything is fine, you got your good thing, and i’ve got mine…) e note per portare ulteriore paurosa gioia in una colonna sonora oscura e complessa come questa, cantata da una delle attrici protagoniste, Laurel Near. Il pezzo verrà reinterpretato qualche anno dopo dai Tuxedomoon e dai Pixies nelle “BBC Sessions”, con Frank Black a sbraitare da par suo, portando nuova luce a uno score che in tanti forse avevano dimenticato, ma che aveva infettato il sangue post-punk/goth (si va dai Danse Society a Zola Jesus e Sacred Bones, per l’appunto) e quello “sperimentale” (un esempio tra i tanti: solo due anni fa Philippe Petit ha creato la colonna sonora di un inesistente “Henry: The Iron Man”, nel quale il protagonista di Eraserhead entra nel mondo di Shinya Tsukamoto e di Tetsuo).
Nel frattempo ne è passata di acqua sotto i ponti, David Lynch ha consolidato con merito lo status di artista culto, e tutto ciò che tocca sembra diventare imprescindibile per la cultura americana più attenta. Eraserhead rimane un film fondamentale per il cinema underground d’Oltreoceano: solo Harmony Korine, o Jim Jarmusch ─ che non a caso pubblica dischi insieme a Jozef Van Wissem per la Sacred Bones ─ e pochi altri hanno avvicinato di un soffio quella luce nera. Lo stesso Lynch non perderà poi il vizietto di continuare su quella strada con risultati spesso esaltanti (“Twin Peaks”, “Lost Highway”, “Una Storia Vera”…), tornando infine quasi alle origini con l’ultimo “INLAND EMPIRE”, dove il suono in sé ─ inteso come rumore puro, drone che continua imperterrito a lavorare sottotraccia ─ condiziona nel bene e nel male una pellicola troppo complessa per venire liquidata in poche righe. Della mente che cancella, oltre al film stesso (caldeggiamo la notevole versione dvd uscita per la sempre attenta Raro Video), fa fede questo vinile racchiuso in una strepitosa confezione deluxe, con splendide foto e un secondo disco in formato 7 pollici di “In Heaven” (è presente l’ormai classico codice per scaricare gli mp3). Sull’altro lato di questo 7 pollici troviamo la pastorale con organo scassato di “Pete’s Boogie”, interessante take composta dallo stesso Lynch, che sarebbe degna di venire inserita in un disco di psichedelia malata (non siamo poi distanti da alcune realtà di area psych texana di fine Sessanta).
Altro non ci sentiamo di aggiungere, visto che a parlare per noi ci sono le note (ci sono ricascato, anche i rumori) di una soundtrack più unica che rara e da amare quasi in maniera incondizionata.
Tracklist
Side One
01. Digah’s Stomp
02. Lenox Avenue Blues
03. Stompin’ The Bug
04. Messin’ Around With The Blues
Side Two
01. In Heaven (Lady In The Radiator Song)
Bonus 7”:
Side A
01. In Heaven (Lady In The Radiator Song)
Side B
01. Pete’s Boogie (Previously Unreleased)
Le immagini del film qui sono presenti solo a scopo didascalico e sono state reperite tra quelle che circolano liberamente altrove sulla rete.
Un ringraziamento particolare a Fabrizio Garau per i preziosi consigli.
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