“A gran giornate” di Claudio Morandini

Creato il 21 settembre 2012 da Sulromanzo

Claudio Morandini ci ha abituato a costruzioni narrative solidissime. Dall'esordio con Le larve (Pendragon, 2008), saga familiare dalle atmosfere gotiche, al singolarissimo Rapsodia su un solo tema. Colloqui con Rafail Dvoinikov (Manni, 2012), finora il suo libro migliore, romanzo-matrioska della storia (autenticamente falsa) d'un indimenticabile personaggio come il vessato e incompreso compositore russo Rafail Dvoinikov. Non meno convincente riesce ora questo suo ultimo A gran giornate (La Linea, 2012) con il quale, in barba (come il Permunian de La Casadel Sollievo Mentale) ad ogni utilitarismo mimetico, tira fuori le stralunate avventure di personaggi comici e disperati in lotta con le impreviste deviazioni prese dai corsi delle loro esistenze (e "deviazioni" avrebbe anche tranquillamente potuto intitolarsi il romanzo), mettendo insieme quasi una sorta di repertorio di varietà manicomiale: dall'Onorato Casamagna che sceglie come compagna di vita una bambola gonfiabile, al Tullio Semenzani, ex carcerato truffatore e seduttore di vecchiette danarose o al sacrestano Nathan, che fa del naturismo consapevole la sua prima ossessione; dal Franchino Spaventa (nomen omen) che per riuscire sempre più interessante agli altri decide di infliggere una serie di trasformazioni al suo corpo, allo scrittore Gabriele Angous il quale, colto da malattia, rinnega la sua vita passata di affermato autore ergendosi a paradigma dell'Uomo Malato; e ancora, dal vecchio comico di varietà Marius Duprez al misterioso e rissoso Ollssen.

Ma non di solo questo si tratta, di marionette d'un teatrino "osceno" che agiscono sullo sfondo d'un mondo del tutto fuori sesto: c'è dell'altro. Il ciarliero nervoso candore lascia spazio infatti, nella seconda parte del libro, al racconto on the road che vede casualmente, con un intreccio di destini, tutti i personaggi viaggiare insieme a bordo di un furgone, entro una dimensione spazio-temporale indeterminata, di profonda smemoratezza, totale sbandamento; dove la realtà assume la parvenza medesima della pastosa sostanza dei sogni, e sogni e incubi, confondendosi, non sembrano mai essere stati così reali. Aggirandosi con «fatalistica disinvoltura» e «irresponsabile levità», immersi nell'apocalittico limbo d'un bloccato tramonto, procedono per inerzia sulla strada, sempre più smarrendo il senso del loro andare collettivo. Buona ogni distrazione, svicolare in volontarie stasi, come per esempio il raccontarsi a turno storie licenziose, per esorcizzare la vera peste di esistenze ormai ingolfate dalla Paura, raggrumate attorno a un gigantesco vuoto di senso. E questo affannoso gioco a procrastinare lo troviamo, in una sapida invenzione, vera e propria mise en abyme, ridotto a puro estenuante meccanismo, nella vicenda finale di Ollssen che riesce a sottrarsi ai suoi assassini, fintanto che seguita a suonare un pianoforte trovato dentro un carro abbandonato in una desolata radura. Che tipo di romanzo sia, A gran giornate, lo esibisce lo stesso Morandini negli inserti metanarrativi che aprono e chiudono, a mo' di cornice, il racconto, facendo esplicito richiamo all'assai letteraria e «trita allegoria della vita»: nel mezzo della quale le sue figurine tragicomiche agiscono, nell'inesorabile trascorrere verso l'abisso della morte che viene dietro, come recita un sonetto petrarchesco, «a gran giornate» (di qui il titolo).

Con una felicità di scrittura del tutto immune da sbavature e che aspira a una solidità di dettato sempre confortata dalle stampelle di un sottofondo di letterarietà (taluni passaggi possono benissimo rimandarci agli esemplari racconti-incipit del Calvino di Se una notte d'inverno un viaggiatore o all'atmosfera, più cupa, di certe storie della Taverna dei destini incrociati), Morandini giuoca, a carte scoperte, in minore, il gioco dell'allegoria contemporanea d'una umanità spaventata, dove il terrore ontologico viene esorcizzato (anch'esso il più antico e letterario dei rimedi) con l'anestetizzante placebo d'un registro comico che deborda a tratti nell'assurdo, arpeggiando l'allegra (?) profezia dell'irrimediabile dipartita di ciascuno e dello scongiurabile (non sappiamo ancora per quanto) sfasciarsi della sintassi del mondo.

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