di Anna Rita Longo
Il 1° foglio del Codice Galatonese IV (sec. XV), contenente la liturgia bizantina per san Francesco d'Assisi (foto F. Potenza)
Ho avuto modo di seguire dall’esterno e da semplice appassionata la vicenda che ha visto coinvolto Francesco Danieli e il suo studio Il rito greco a Galatone. San Francesco d’Assisi in un codice bizantino del sec. XV, Galatina 2005, oggetto di feroce critica da parte di Anna Gaspari nella sua recente edizione del medesimo manoscritto sul quale il Danieli aveva lavorato.
Il lavoro di Francesco Danieli era già stato sottoposto agli strali impietosi di Pietro Messa, che ne aveva evidenziato quelli che, a suo dire, ne erano i notevoli limiti, sorvolando sulla possibilità che vi fosse qualche merito da ascrivere all’autore. La sua allieva Anna Gaspari si colloca sulla scia tracciata dal proprio maestro, rendendo nota sin dalle premesse del proprio lavoro la sua intenzione di discostarsi radicalmente dall’operato del Danieli (cosa, peraltro, legittima), attribuendosi senza peccare di falsa modestia il merito di essersi per prima accostata al testo dell’akolouthìa francescana con il rigore della scienza e salda padronanza dei mezzi filologici e paleografici. Fin qui le affermazioni della Gaspari, ma è forse possibile proporre una lettura alternativa della vicenda.
Il lavoro di constitutio textus è per sua natura un’opera corale, che procede per cerchi concentrici, per successive approssimazioni attraverso l’operato umile e paziente di molti studiosi che si succedono in epoche diverse, dove ogni ulteriore contributo accresce, modifica, corregge, implementa quanto fatto in precedenza, senza peraltro che sia possibile pensare all’ultimo di tali lavori come il prodotto di un’unica mente geniale ed isolata. Il singolo filologo, per adoperare un’abusata ma nondimeno efficace espressione di Bernardo di Chartres, non è che un nano, ma che si giova di potersi collocare sulle spalle dei giganti che hanno prima di lui affrontato l’avventura del sapere. E da quella posizione può, se vuole, decidere di insuperbirsi, peccare di hybris, dirsi l’unico artefice delle proprie brillanti conclusioni, senza peraltro cambiare la natura delle cose: nel momento in cui sta riuscendo ad andare oltre, lo deve sì al proprio contributo, ma anche alle solide spalle di coloro sui quali si appoggia.
I maestri alla scuola dei quali ho avuto il piacere e l’onore di formarmi (primo fra tutti l’esimio filologo prof. Pietro Giannini) mi hanno insegnato ad accostarmi con umiltà al lavoro altrui, a rispettare l’impegno e la dedizione degli altri agli studi dietro ai quali provavo a collocarmi, a non liquidare irrispettosamente i pareri dai quali ritenevo di dovermi discostare, ma a tentare di comprenderne le ragioni e verificarne i presupposti teorici. Non di rado al filologo capita di ricredersi, di tornare indietro proprio su quelle posizioni che dapprincipio erano apparse improbabili, di imbattersi in elementi in un primo momento trascurati che conducono in direzioni opposte rispetto alla linea fino a quel momento seguita. Sempre uno dei miei maestri, il prof. Onofrio Vox, studioso rinomato, soleva dire che la filologia non si può a pieno titolo annoverare tra le scienze, proprio perché nel suo statuto epistemologico vi è una parte strettamente legata all’ingenium del singolo filologo e, come tale, soggetta a interpretazione personale. Mentre, quindi, uno scienziato riuscirà senza problemi a riprodurre in laboratorio con gli stessi esiti gli esperimenti di un altro ricercatore, così non può avvenire per il filologo, perché di mezzo c’è la sua personale visione della questione in esame. Il metodo lachmanniano può essere, pertanto, padre di ragionevoli ipotesi, ma non di certezze, con buona pace della Gaspari, che invece si avoca il diritto di presentare le proprie conclusioni come inoppugnabili.
Qui non si intende contestare la natura delle osservazioni della Gaspari sulla traduzione del Cod. Gal. IV, come pure sulla ricostruzione del testo greco. Quello che è, invece, in discussione è lo stile nel quale la studiosa propone i suoi rilievi: alle pagine 29-30 del suo libro, in particolar modo, la Gaspari sceglie di sottolineare i propri meriti di paleografa e filologa passando attraverso la derisione del lavoro di Danieli. Il tono denigratorio, i punti esclamativi ammiccanti, il sistematico dileggio dell’operato altrui, in realtà, tolgono forza alle sue argomentazioni, perché appaiono, ad un occhio esterno, come biechi tentativi di mettere in luce il proprio lavoro alle spese di quello svolto da altri in precedenza e dai quali il proprio, che piaccia o meno all’autrice, dipende almeno in parte. La Gaspari avrà probabilmente ragione in alcune delle proprie osservazioni testuali. In altri casi i suoi rilievi rientrano nell’ambito delle ipotesi (ragionevoli e rispettabilissime senza dubbio, ma pur sempre tali e quindi soggette a discussione). In altre occasioni la volontà di acuire i toni del dileggio la induce a osservazioni infondate e gratuite, quale quella di attribuire al Danieli l’uso esclusivo del lessico di Rocci, mentre una rapida scorsa alla bibliografia dimostra che lo studioso si è servito anche del Liddel-Scott-Jones e del Du Cange, o almeno di questi, dal momento che gli studi a carattere divulgativo, quali quello del Danieli, riportano spesso solo un’agile bibliografia di riferimento e non un elenco esaustivo dei tomi compulsati. Interessante, poi, la notazione, a p. 29, sulla presunta presenza di «parentesi “ballerine”» (sic!), anche se non è dato sapere che cosa la studiosa intenda con tale colorita espressione, certamente fuori luogo in un testo che aspira al rigore scientifico.
Il volume di Francesco Danieli, ''Il rito greco a Galatone. San Francesco d'Assisi in un codice bizantino del sec. XV'', edito da Congedo Editore a Galatina nel 2005
D’altra parte sgradevole appare anche il tono nel quale la Gaspari sottolinea, nella nota 68 a p. 31, che «la presente edizione appare come editio princeps, dal momento che i precedenti non possono che essere considerati meri tentativi di trascrizione, non certo di edizione». Niente da eccepire: l’edizione della Gaspari è senza dubbio la prima. Sua è l’editio princeps dell’akolouthìa francescana del Cod. Gal. IV. D’altra parte lo stesso Danieli, a p. 51 del proprio volume, precisa che il proprio lavoro è una trascrizione, non già un’edizione critica, e come tale deve essere letto e valutato.
Altre edizioni forse seguiranno alla princeps di Anna Gaspari, forse più rispettose del lavoro di chi ha aperto la strada allo studio di questo codice, come è nello stile del vero filologo, mai dimentico dell’apporto di chi l’ha preceduto o dell’opinabilità delle proprie conclusioni.
Personalmente, prescindendo dalle cadute di stile dell’autrice, ho letto con piacere il contributo della dottoressa Gaspari allo studio del Cod. Gal. IV, ma sono tra coloro che hanno apprezzato anche il lavoro pionieristico di Francesco Danieli, al quale riconosco non già come la Gaspari fa con condiscendenza il semplice merito di «aver dato risalto ad un testo poco noto agli ambienti minoritici», ma anche di aver approfondito la storia del rito greco attraverso una sua interessante testimonianza e, con Jacob, quello di aver fornito un «prezioso contributo» allo studio dei «rapporti intercorsi tra greci e ordini mendicanti in Terra d’Otranto alla fine del medioevo».
Resta, in questa sgradevole vicenda nella quale ha giocato un ruolo importante il culto di sé a scapito degli altri, l’amarezza che deriva dal constatare come le accuse rivolte al giovane ricercatore salentino siano state accolte nel più assordante silenzio da parte della diocesi di Nardò-Gallipoli, nella quale egli esercita la propria missione sacerdotale e il proprio pregevole contributo di studioso. Il rilievo potrà forse apparire – ed anzi certamente è – un’ingenuità da parte di chi, collocandosi al di fuori degli ambienti ecclesiastici, non ne conosce logica e dinamiche. Ma è naturale chiedersi come sia possibile che un ricercatore apprezzato nel resto d’Italia e all’estero, sin da giovanissimo curatore di una collana di testi storici, fine conoscitore della storia antica e medievale, cultore della paleografia e della codicologia, subisca, evangelicamente, il destino di chi è profeta sì, ma non a casa propria. Ingenuamente senza dubbio mi domando come sia possibile che nessuno di coloro che hanno avuto modo di apprezzare la scienza e l’umiltà di Francesco Danieli abbia deciso di prendere parola per difenderne la dignità di studioso e il contributo intellettuale, prestato gratuitamente e senza altro fine che quello di fornire onestamente il proprio apporto agli studi da sempre coltivati. Eppure ogni ricercatore ben conosce il rigido protocollo previsto per ottenere dalle singole diocesi – tramite l’ufficio diocesano per i beni culturali – l’autorizzazione a studiare e pubblicare immagini o contenuti di beni artistici e archivistici di proprietà ecclesiastica; specificazione, questa, che sottolinea come gli organi diocesani preposti abbiano avuto certamente la possibilità di invitare la Gaspari a moderare i toni e non l’abbiano fatto. Stupisce questo silenzio complice perché chi, come me, conosce e legge le opere del Danieli non può fare a meno di apprezzarle e, quindi, di rilevare il pressappochismo di chi ne ha frettolosamente liquidato una piccola parte. Se non avessi opposto tali puntualizzazioni a quelle che mi sono apparse accuse gratuite e di basso profilo umano prima che intellettuale, avrei sentito di commettere un’ingiustizia nei confronti dello studioso, che merita invece il giusto riconoscimento per il proprio operato. Diverso, a quanto pare, il parere della sua diocesi. Nemo propheta in patria. Ancora una volta l’adagio evangelico si rivela azzeccato.
(Anna Rita Longo è docente di Materie letterarie, latino e greco nei licei; dottoressa di ricerca presso l’Università del Salento e l’Albert-Ludwigs-Universität di Freiburg i. Br. – Germania, n.d.r.)