“Hai mica visto che folla, tutta lì davanti a San Petronio in Piazza Maggiore? Sembra quasi che il Bologna abbia vinto lo scudetto, roba da matti, e proprio il giorno del mio compleanno!” – e tira giù una lunga risata ghignante, furbesca – “è dalla morte della Magnani che i funerali hanno smesso d’esser lutto ed hanno cominciato ad esser circo: ci si indigna, si applaude, si sgomita per trovare un posto in prima fila appena dietro le transenne, ci si commuove anche, ma credo più per condizionamento collettivo che per la cognizione reale della perdita. Figurati, io durante i funerali di Togliatti andai in giro per i cazzi miei, ho quasi provocato una rissa” – dice, ma lascia intendere che ha ormai preso piede il suo famigerato humour caustico, il suo cinismo d’autore. Colgo il “pretesto Togliatti” per informarlo delle accorate dichiarazioni di commiato da parte del mondo politico, da Casini a Bersani, dal segretario Alfano al presidente Napolitano, sulle dichiarazioni politiche che si mettono in bocca a chi non può più parlare, ma tutto questo lui deve saperlo già: “Mi pare di averlo più volte ripetuto, in passato, che ho vissuto e cantato non per la bandiera, non per il colore, ma per l’individuo, per l’incrollabile fede nella sacralità dell’essere uomo. Sono salito sul palco alle feste dell’Unità, ho corso d’un fiato lungo le strade della contestazione, ho frequentato la famiglia Craxi e fatto visita ad Arcore, non me ne vergogno e delle loro classificazioni me ne sbatto. Cercavo l’uomo che sapesse insegnare ad esser uomini, e non il nome da segnare a matita in cabina elettorale”. Le parole scivolano in terra, amare, forse per la consapevolezza che in piedi davanti al feretro ci saranno comunque i politicanti di cui parla, ad impetrare la salma con i dovuti onori civili. Gli stessi volti annoiati che in questi giorni da Bruno Vespa poggiano la mano al cuore al suon di “ci mancherà l’uomo, l’artista, il poeta”, ma che negli anni hanno ricoperto il rango di bersagli preferenziali del vecchio Lucio, vittime del suo più arguto e disperato attacco ironico.
Chiedo quasi sottovoce se ha voglia di dire qualche parola prima di andare, se lo preoccupano le crisi economiche e morali, la decadenza dell’industria musicale, se lo preoccupa il futuro. Mi poggia il palmo sulla spalla e canta, auto-citandosi: “Noi sappiamo tutto del motore, questo lucente motore del futuro. Ma non riusciamo a disegnare il cuore di quel giovane uomo del futuro. Non sappiamo niente del ragazzo fermo sull’uscio ad aspettare, dentro a quel ghetto del 2000, non lo sappiamo immaginare”. Poi si fa serio, cupo in viso come un temporale estivo: “Voglio solo che sappiano che per quanto possa essere difficile stare al mondo ne vale comunque la pena, e su questa vasca di sabbia che è la storia lascia l’impronta chi riesce a non tradirsi e a non tradire fino all’ultimo squasso d’esistenza, che sia cantante, ladro, farmacista o operaio”. Si alza in piedi, schiocca le nocche, sistema gli orli della giacca – “Credo sia venuto il momento di andare, è il mio compleanno, come dicevo, e non vorrei farli aspettare più del necessario” – strizza l’occhio, accenna una smorfia a metà strada tra la speranza e la nostalgia, e l’atmosfera si appesantisce, densa come catrame. Su un vecchio muro violentato dai bombardamenti del ’40 ma ancora miracolosamente in piedi qualcuno ha attaccato un lenzuolo con su scritto: “Sei stato sempre presente ma solo da quando non ci sei più ci si accorge davvero di ciò che abbiamo perso”. Lo guarda e ne ride, prova a lavare via il malumore d’un saluto, l’ultimo, con la solita ironia – “D’altra parte ciò che è bello diventa tale solo quando non c’è più, no? Eccoti servita la tua frase da paraculo, ma puoi benissimo non scriverla se vuoi, ragazzino” – conclude, con sulle labbra l’imperturbabile compiacimento di chi sa di lasciarsi indietro la vita, ma di averla prima masticata, incendiata e consumata al meglio. Alza la mano, mi saluta mentre resto solo sulla panchina e lo guardo scomparire lontano, come si guarda un soldato a cavallo, a cavallo del cielo d’Aprile. Piazza Grande è gremita, ma di silenzio.