Comunque, eccolo là, nella sua cella nel braccio della morte. Come se la passa? Discretamente, direi. Era certo della propria morte anche prima della sentenza, questa certificazione non lo angoscia più di tanto. Solo un gran bruciore di stomaco gli rovina un po' le giornate. Pensa che sia colpa della cucina del carcere. Ma un giorno ha uno sbocco di sangue. Lo portano in infermieria. Lo esaminano. Gli diagnosticano un brutto male. Due, tre mesi di vita al massimo. Ecco. Un'altra condanna a morte. Una dietro l'altra. Che tempi! Beh, neppure questa lo sconvolge più di tanto. Si direbbe un fatalista, questo ragazzo!
La notizia sconvolge invece l'opinione pubblica. Si dice che non avrebbe senso condurre alla forca un uomo che dovrà morire comunque a breve. E che oltretutto presto sarà pure ridotto alla totale impotenza. E sia. Si riuniscono magistrati e giureconsulti, tutti i gran signori delle leggi. Si pensa così: l'abbiamo condannato a morte per vendicare la società, ma se questo ci muore per i fatti suoi, è possibile immaginare, per chi ha fede, che la sentenza fosse così giusta che l'esecuzione sarà addirittura d'origine divina. Non si dimentichi che soffrirà molto di più di quanto noi, per legge, potremmo farlo soffrire; non si tralasci che l'impiccagione risulterebbe ora quasi un atto di pietà, un'eutanasia, assolutamente contraria all'idea di vendetta sopracitata e per giunta illegale; si aggiunga che sarebbe anche un piccolo risparmio per la comunità levarcelo di torno... sia graziato. E grazia fu. E così venne scarcerato, morente.