Quante volte capita di sentire, da parte dei personaggi della classe politica italiana, riferita alle possibili conseguenze di certi comportamenti di loro colleghi, l’espressione “se ne assumeranno la responsabilità”?
Ciò che a mio avviso conferisce a queste parole (che nelle intenzioni di chi le pronuncia dovrebbero suonare come una minaccia) un valore di assoluta comicità, è la consapevolezza (non solo da parte di chi ne è il destinatario, che delle eventuali conseguenze negative del proprio operato se ne infischia nella maniera più assoluta) della loro assoluta insignificanza.
Da qui, l’indifferenza generale con la quale quell’espressione viene accolta.
Semplici suoni, ecco cosa sono quelle parole (“se ne assumeranno la responsabilità”).
Niente di più che contenitori privi di contenuto, della stessa consistenza dell’aria che esce dai polmoni di chi le pronuncia.
Il termine che, nella mente dell’autore di queste “minacce”, dovrebbe incutere timore è quel “responsabile”.
Non capisce invece (o forse non se ne rende nemmeno conto) che in Italia questa parola ha un significato che è ben lontano da quello che si vorrebbe far credere che abbia.
In Italia il termine “responsabile” identifica quasi sempre una persona che, nell’ambito di un’organizzazione aziendale, percepisce, per il semplice fatto di essere chiamato tale, uno stipendio maggiore di chi quella qualifica non ce l’ha.
Ci sono però casi nei quali l’equivoco di far coincidere in modo meccanico il concetto di responsabilità con la quantità di danaro che si percepisce per la propria attività non esiste.
Parlo, per esempio, del caso della giustizia, settore nel quale essere “responsabile” significa essere “destinatario di sanzioni”; “responsabile”, in una struttura organizzativa aziendale, è, per un giudice, chi è destinatario di sanzioni, non chi usa quella qualifica solo per giustificare quanto guadagna in quell’azienda.
Il giudice che interviene in caso di incidente sul lavoro individua facilmente chi è “responsabile”: va a vedere chi sono i soggetti che, secondo le leggi che si applicano a quel caso, sono destinatari di sanzioni e analizza il comportamento da essi tenuto, quello che hanno, o non hanno, fatto.
Come si vede, la differenza non è di poco conto.
In genere, nel mondo del lavoro, soprattutto nella pubblica amministrazione, la gran parte di quelli che vengono identificati come “responsabili” (quelli cioè che in virtù di questa qualifica guadagnano di più) sono in realtà dei soggetti assolutamente irresponsabili.
E questo non solo perché non sono destinatari di sanzioni, ma per una ragione ancora più profonda: perché non rispondono del loro comportamento, perché non rendono conto del loro operato.
E l’origine di ciò sta nel fatto che, nella stragrande maggioranza dei casi, il lavoro non viene considerato come un’attività finalizzata al raggiungimento di un preciso risultato, ma solo, più semplicemente e più genericamente, come lo svolgimento di determinati compiti (le cosiddette “mansioni”).
Quello che manca, nella maggior parte del mondo del lavoro dipendente, è il concetto di “risultato”.
Prendiamo, per esempio, il settore della scuola, dove quello che conta è soltanto il numero di ore di lezione.
Nessuno, mai, che chiami gl’insegnanti a rispondere del livello di competenza degli studenti della scuola media italiana evidenziato dal rapporto Ocse-Pisa.
Chi è “responsabile” della preparazione degli studenti? Chi risponde di questo bel risultato?
Il punto è che in Italia, Paese refrattario come pochi al rispetto delle regole, manca un concetto-chiave, quello che in inglese viene definito accountability.
E questo in un Paese dove non si fa che ricorrere all’uso di termini inglesi.
Solo che del mondo anglosassone si importano le parole, non i concetti, i contenitori, non i contenuti.
Ci sono casi poi in cui (in alcuni settori del mondo del lavoro) si fa ricorso al lavoro per obiettivi: a inizio anno vengono fissati dei traguardi e a fine i risultati ottenuti vengono confrontati con quelli attesi.
A parte il fatto che spesso la definizione degli obiettivi, dei risultati attesi, sui quali misurare la responsabilità, non risponde ai dovuti criteri di trasparenza, quello che rende poco seri questi meccanismi è il fatto che il loro funzionamento è unidirezionale: il responsabile, se raggiunge gli obiettivi prefissati, viene premiato, ma non rende conto del loro mancato raggiungimento.
Non esiste cioè alcuna responsabilità per chi non raggiunge gli obiettivi che gli sono stati assegnati.
Adottare l’accountability, chiamare cioè i responsabili a rispondere del risultato raggiunto, significa invece prevedere conseguenze sia positive (premi) che negative (sanzioni).
Il responsabile deve essere destinatario non solo di premi ma anche di sanzioni.
Se no, il peggio che gli possa capitare è “non vincere”.
Come nella battuta di Totò, che inventa una regola per la quale non perde mai: qua vinciamo, qua perdi.