A proposito del titolo

Da Marcofre

Nel dramma Parola d’onore il titolo non è azzeccato.

A scrivere questo è Anton Čechov. Nel prosieguo della lettera, lo scrittore russo spiega il motivo che lo spinge a emettere un tale giudizio. Lo definisce “pericoloso” perché il lettore è indotto a guardare la faccenda troppo letterariamente. In poche parole: l’attenzione rischia di spostarsi verso l’aspetto sbagliato.

Čechov non spiega come intitolarlo. Questa è una faccenda che riguarda solo chi scrive; lui come tutti i maestri si limitava a indicare cosa non andava.

Sta poi a chi scrive decidere se e come intervenire.

Di solito, un titolo scaturisce dalla storia, è nascosto in essa e d’un tratto balza fuori. C’è un dialogo, un elemento che si palesa e che può essere usato come titolo. Magari rappresenta la svolta della storia. Però questa è un’affermazione che non vuol dire molto, anzi.

Sappiamo bene che buona parte delle opere hanno un titolo suggerito da un editor, un amico dello scrittore, un editore.

Come se a chi scrive non riuscisse di avere la necessaria lucidità per azzeccare il titolo.

E in parte è proprio così. Si sa, o meglio dovrebbe essere patrimonio comune o quasi, che un autore ha bisogno di qualcuno che lo aiuti a capire cosa va o no in quello che scrive. Che si tratti della moglie (Tolstoj) o di colleghi, oppure amici fidati, chi scrive è come l’equipaggio di un sottomarino. È cioè persuaso che il mondo siano le cuccette, la sala macchina, la sala mensa… Il sottomarino insomma. Solo quando emerge si rende conto della vastità del mare.

Un autore deve riemergere dal ventre della storia per capire cosa ha combinato. E ci riesce solo quando qualcuno lo riporta in superficie.


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