A proposito della deposizione di Napolitano sulla trattativa Stato-Mafia

Creato il 02 novembre 2014 da Laotze @FrancoTorre1953

Scrivo questo post dopo aver letto il resoconto della deposizione resa lo scorso 28 ottobre dal Presidente Napolitano nell’ambito di quello che, con superficialità, è stato presentato all’opinione pubblica come il processo sulla trattativa Stato-Mafia.

Fra le tante, una delle più grosse imprecisioni commesse dai mass media nel raccontare questo processo riguarda il capo d’imputazione.

A questo proposito è bene ricordare che quello che viene contestato agli imputati non mafiosi non è aver trattato con alcuni mafiosi (il reato di trattativa non esiste) ma aver concorso, con alcuni mafiosi, all’attuazione di un attentato ad un Corpo dello Stato (il reato contestato, sia agli imputati mafiosi che a quelli non mafiosi, è infatti quello di “violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario”).

Com’è noto, gli imputati in questo processo sono sia alcuni mafiosi (accusati di aver minacciato lo Stato per ottenere dei benefici) sia alcuni rappresentanti dello Stato (accusati di aver favorito quei mafiosi nel portare a termine la loro minaccia e nel trarne i benefici attesi).

A proposito della forma della deposizione di Napolitano, ho notato quanto questa sia fortemente caratterizzata dal classico modo di esprimersi dei rappresentanti della pubblica amministrazione di questo Paese, soprattutto di quelli che occupano i livelli più alti.

Un modo di esprimersi, un linguaggio, che evidenzia come meglio non si potrebbe quanto alla cultura di questo Paese siano estranei concetti quali la stringatezza, la concisione.

Che modo barocco di porre le domande!

Ben altro avrebbe dovuto essere il modo di condurre l’interrogatorio, soprattutto in considerazione della scivolosità della materia.

E poi, quanta vuota retorica in tanti protagonisti di quest’evento, quanta voglia di apparire sulla scena, di farsi intervistare!

Quanta teatralità in quell’ingresso nel palazzo del Quirinale!

Come al solito, molta scena e poca sostanza (come direbbe Shakespeare, molto rumore per nulla).

Se invece dalla forma si passa alla sostanza, e cioè ai fatti dei quali questo processo si occupa, ritrovo la conferma di come spesso la verità sia talmente evidente che si fa fatica a vederla (soprattutto se la si vuole mantenere nascosta).

Qual è in questo caso la verità, così evidente ma che, proprio per questo, si tende a nascondere, confondendo volutamente le acque?

Semplice: l’origine della trattativa di cui tanto si parla.

Dopo l’omicidio di Salvo Lima (12 marzo 1992), fatto che ha rappresentato un vero e proprio spartiacque, fu chiaro a tutti che tutto sarebbe potuto accadere.

Non a caso, dopo quell’omicidio, Giovanni Falcone, che conosceva come nessun altro come stavano le cose, disse: d’ora in poi può accadere di tutto.

Quello che, a proposito dei fatti di cui si occupa questo processo, non si dice con la dovuta chiarezza è che la trattativa che lo Stato italiano avviò subito dopo quell’omicidio non fu finalizzata, come ipocritamente si continua a sostenere, a garantire la sicurezza dei cittadini (dei quali non gliene fotte niente a nessuno), ma ad evitare che alcuni esponenti della classe politica italiana facessero la fine di Salvo Lima.

Così come, pur di negare agli italiani il diritto di conoscere la verità, si continua a sostenere, incuranti del ridicolo, la tesi della Mafia unica responsabile delle stragi che hanno insanguinato l’Italia (non solo quelle del 1992 e del 1993).

Ma davvero si può credere che persone pensanti possano accettare l’idea che alcune delle stragi più atroci che hanno segnato questo Paese siano state concepite ed attuate unicamente dalla Mafia e non vedere che invece questa sia stata, da sempre, anche un utile strumento per raggiungere obiettivi estranei all’universo mafioso propriamente detto?



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