A proposito di “Dall’Altopiano al Mayumbe”

Creato il 01 giugno 2011 da Libereditor

(di Vittoria Delsère)

Ho finito ieri la storia del signor Giuseppe.
Il signor Giuseppe è entrato nella mia casa con la rispettosa intimorita educazione dei contadini d’altri tempi, quelli  che si accingono a compiere un’impresa senza capire bene dove stanno andando, ma lo fanno perchè si deve, perchè c’è la necessità, la terra è bassa e la vita è dura.
Il signor Giuseppe ha aperto il suo diario, e proprio come diceva la maestra delle mie figlie “ha traccciato la linea del tempo partendo dall’esperienza personale”. Così ci siamo trovati nella storia con la S maiuscola e lui me l’ha raccontata coi suoi occhi di testimone.
La vicenda del signor Giuseppe mi ha molto colpito e in un certo senso commosso in quanto mi pare una bella epitome della storia di tanti italiani. Si pensa spesso all’italia del sud come terra di emigrazione, dimenticandosi che dal nord partivano alla volta del Sudamerica, dell’Africa o anche solo della Svizzera schiere di vignaioli e taglialegna, muratori, lavoratori delle ferrovie.
Adottando un genere misto che contempla il documentarismo e la biografia, Marco Crestani, pronipote del signor Giuseppe, propone una una lettura abbastanza impegnativa, per le riflessioni storiche che suggerisce, ma fruibilie anche  da chi non si occupa di storia o di letteratura, con una scrittura semplice, chiara, puntuale e un poco aspra, proprio come i tratti che ci figuriamo in un emigrante di inizio Novecento.
Il libro comincia con l’oggi e con le riflessioni della voce narrante, quella di Marco,  sull’avita dimora. Temevo perciò una conclusione di stampo moralistico, con voce narrante che ci ricorda che dobbiamo combattere l’ingiustizia e costruire un nuovo mondo. Invece Marco ha preferito un rigoroso sguardo storico e da lettore, lo ringrazio per questa scelta.
Tradizionalmente  e intellettualmente corretta, la voce narrante si alternata alle pagine di diario che comprovano quanto raccontato. Così il signor GIuseppe ci porta in giro per il mondo e ce lo descrive come lo vede chi nel mondo lavora e non fa il turista. Prova a darne un resoconto circostanziato e preciso, facendo riferimento al potere d’acquisto dei salari, per esempio. In questo senso ho trovato commovente il tentativo di dire anche qualcosa dei propri sentimenti per poi subito tornare ad annotazioni pratiche. Ci ho ritrovato tante persone anziane che ho conosciuto da piccola e che non erano in grado di esprimere gli stati d’animo con un registro linguistico appropriato e quindi mutuavano il linguaggio dalle esperienze “scolastiche” che potevano andare dalle elementari, al servizio di leva, all’aver servito presso qualche famiglia benestante e acculturata. Era un linguaggio che mi sembrava stonato, e lo era perchè il registro linguistico formale e codificato di certi ambiti lavorativi o sociali male si addiceva alla sfera affettiva. Ho ritrovato lo stesso linguaggio impacciato nel diario del signor Giuseppe e mi ha  comunicato l’idea di un uomo che nutre dei sentimenti profondi verso la propria  famiglia e gli esseri umani tribolati, ma non ha le parole per esprimerli. Mi ha fatto tenerezza.
Ho notato una certa disomogeneità di stile nel diario. Cioè un cambio repentino  nel momento in cui al signor Giuseppe viene affidato un gruppo di  congolesi incatenati. Da lì in poi il linguaggio si fa più articolato, aumentano i connettivi e il lessico più sofisticato. Cosa sarà successo? Il signor Giuseppe si sarà sentito investito di nuove responsabilità? Sarà venuto a contatto con europei più istruiti dei compagni di viaggio che l’hanno accompagnato dal suo altopiano fino in Argentina e di lì in Sudafrica e poi nel Congo? Diario e voce narrante sono muti su questo aspetto.
Il signor Giuseppe ci racconta uno spaccato della storia del Congo legata al Belgio. Credo che l’argomento sia a tutt’oggi una specie di buco nero/tabù nei manuali di storia. Se ne parla pochissimo; invece andrebbe studiata non tanto per deprecare, come mi pare ovvio, l’operato di Leopoldo II, ma al fine di farci comprendere situazioni che si trascinano fino a noi, nazismo  compreso, e anche per spiegare ai ragazzi come mai gli stati africani hanno dei confini che “sembrano” tracciati al tecnigrafo.  Cosa che i più secondo me non notano nè comprendono intuitivamente.
Da ultimo il linguaggio del narratore: asciutto e preciso, come ci si aspetta da un buon discepolo del mio amato Rigoni Stern.

Vittoria Delsère (storica medievalista autrice con Elena Maffioletti di Bisclavret. Storia luminosa di tempi bui) mi ha fatto un grande regalo scrivendo queste impressioni riguardo a “Dall’Altopiano al Mayumbe”. La ringrazio affettuosamente.